Di Caproni avevo già conoscenza. Fin da adolescente (quando non ero un lettore di poesie), un amico più sgamato mi aveva messo sotto mano il Meridiano contenente la raccolta dell’86 Il Conte di Kevenhüller, facendomi notare come molte delle poesie del livornese avessero un’atmosfera quasi di genere che non potevo non apprezzare. E infatti apprezzai. Per lunghi anni Caproni fu il solo poeta che lessi con passione, tanto che, con gli anni, divenne uno dei più amati. Tuttavia non avevo mai approfondito lo spunto fornitomi dall’amico di gioventù.
L’articolo del Manifesto, oltre al lavoro di scavo della Dei, testimonia oggi il percorso creativo e originale che la poesia dell’ultimo Caproni imbocca dal ’75 fino alla morte. In particolare con l’uscita della raccolta del Franco Cacciatore Caproni approda a una versificazione singolare e originalissima, lontana sia dai furori sperimentali che dalle rive della lirica più paludata. Già nella raccolta precedente, Il muro della terra, peraltro baciata da grande successo di pubblico e critica, la poesia di Giorgio Caproni è un continuo affiorare di spettri del passato, desolate figure familiari in un mondo che appare sempre meno realistico, una sorta di dimensione intermedia tra la vita e la morte (un po’ come in certe narrazioni "lynchiane" dove i personaggi si sdoppiano, diventando i propri alter ego, (non) io sinistri e allarmanti. La poesia di Caproni, dal ’75 in avanti, vuole sganciarsi del tutto dalla civiltà tecnologica del dopo boom economico. Nella poesia intitolata Condizione (nelle prime pagine del Muro della Terra) il poeta descrive la condizione di un personaggio senza nome ormai chiuso dentro i confini della propria stanza:
“Un uomo solo,
chiuso nella sua stanza.
(…)
Solo in una stanza vuota,
a parlare. Ai morti.”
Quasi negli stessi anni Mario Bava, in una intervista per Positif, parlava di come avrebbe voluto girare un film “con un unico personaggio, solo nella sua camera: l’uomo che finisce con l’avere paura di se stesso. Allora tutto comincia a muoversi attorno, gli oggetti si animano pericolosamente. Non ci sono più mostri davanti a noi, i mostri siamo noi stessi, è chiaro”. Questa sorta di deriva contro la civiltà tecnologica degli anni settanta (e il desiderio di un’uscita radicale) trova ulteriori spunti nel finale bellissimo del romanzo postumo di Guido Morselli Dissipatio H.G., dove l’umanità non c’è più e l’ultimo uomo sulla terra si diletta a immergere manichini da vetrina in una piscina, per poi vederli galleggiare, mossi dal vento in un’oscena kermesse di plastica e desolazione inorganica.
Il muro della terra (’75) illumina i vari versi con una fievole e gelida luce di candela, costruendo, poesia dopo poesia, quasi l’impressione di un sortilegio fatto di paesi abbandonati, sparuti cercatori sperduti nelle tenebre, ricordi lacerati d’una realtà guerresca ormai trasfigurata in allucinazione d’ombre. Emerge con chiarezza la figura del cercatore/cacciatore, di un io senza nome spaesato all’interno di un paesaggio nebbioso e senza punti di riferimento, senza più alcun Dio a cui votarsi. Dalla metà degli anni ’70 la poesia di Giorgio Caproni, pur muovendosi all’interno di un paesaggio astorico in evidente crasi rispetto a quello tecnologico, si carica di temi e forme di fortissima originalità. Anzitutto un versificare chiaro, dal sapore narrativo, la capacità di mettere in scena situazioni riconoscibili, abbozzi di storie affidati a una scrittura in versi che comincia a sfibrarsi, a erodersi, a ridursi verso il silenzio.
Nel Muro della terra è ancora possibile afferrare scorci di un mondo esterno, come nella poesia via Pio Foà, I, dal nome dell’abitazione romana dell’autore, scorcio di un quartiere (Monteverde) stravolto dalle storture del consumismo, ridotto a quartiere spettrale e metallico. Nella raccolta successiva del Franco Cacciatore (’82) si avverte l’influenza di un romanticismo visionario imbevuto di magia e angoscia esistenziale. In molte interviste del periodo, Caproni è consapevole che la poesia abbia esaurito un ciclo, che il suo campo di lettori si sia ridotto e che il fare poetico abbia perso la centralità dei decenni precedenti. I legami con la tradizione sono stati rotti. In un’intervista con Ferdinando Camon del ’65, Caproni dice con grande lucidità: “Oggi come oggi sento che tutte le strutture classiche e ottocentesche non reggono più. Oggi non viviamo più in un mondo geometricamente perfetto, anche se pieno d’orrende ingiustizie (...) Oggi dobbiamo rifare tutto da capo (…) la mancanza di una certezza, più che mia, mi sembra dell’epoca.” Caproni non pare nemmeno troppo lusingato dalle sirene delle neoavanguardie dell’epoca, che gli appaiono noiose e sterili imitazioni di un passato avanguardistico ormai finito. Per questo il poeta livornese (ma genovese di adozione) si muove su un crinale tutto suo, in uno spazio letterario e poetico che non ha eguali nel tempo in cui vive.
In una intervista del ’72 ad Antonio Altomonte, sintetizza la sua condizione: “La gente, ora, ha il benessere, e dall’altra parte ha le bombe. Che cosa se ne fa dei miei versi? Quanto alla “novità”, non so nemmeno io. Sono i miei consueti temi, più scarniti: la solitudine dell’uomo d’oggi nella massa, forse la morte stessa dell’uomo”. Nel Franco Cacciatore le poesie si fanno sempre più minute, brevissime, frammenti aforistici dove si scorge tutto l’amore dell’autore per la musica e la simulazione teatrale dell’impianto. Poesie - come fa notare nell’introduzione di questa nuova ristampa Adele Dei – immerse in un contesto quasi fiabesco, boschi pieni di ombre e nebbie uscite da tanta letteratura gotica romantica.
Come lettore, per sua stessa ammissione, Caproni è stato un lettore disordinato, che ha mescolato filosofia, grande poesia a letteratura di evasione e fantastica: Dante, Leopardi, Kafka, Giulio Verne, Hoffmann con Schopenhauer, Jack London e Nietzsche. Un modo di leggere che si rifrange nel modo di scrivere. Caproni è lontano da mode e vanità del mondo letterario: per tutta la vita si è guadagnato il pane insegnando come maestro elementare, prima nella Val Trebbia, poi a Roma. La fama è arrivata tardi, verso la pensione. Caproni ha pensato le sue poesie in tram, in treno, passeggiando tra i frastuoni della capitale, quasi a sottolineare un modo di fare poesia artigianale, senza vezzi o narcisismo. Un maestro di scuola (illuminato, antiautoritario, che si faceva alunno tra gli alunni e promuoveva laboratori di poesia tra i suoi bambini delle elementari), un poeta e uomo come tutti gli altri. Tuttavia le poesie del Cacciatore appaiono come brevi tappe di un viaggio pieno di selve oscure, ombre dei morti, stazioni e confini oltre i quali pare esservi soltanto un nulla inscalfibile, un nulla quasi fisico, reso da una sensazione di gelo. I villaggi sono di frontiera, ultimi baluardi, insieme alle stazioni, prima del vuoto.
Anche i radi strumenti tecnologici presenti (i televisori) paiono sintonizzati su tele-prediche e telepredicatori che vociano blasfemi sull’assenza di Dio. Il cacciatore del titolo è un cercatore, un viandante che si muove tra “muri della terra” e “ultimi borghi”, spesso armato di una lanterna che vacilla sul buio oltretombale delle parole. Dal Franco Cacciatore in avanti la poesia di Caproni si sfalda e riduce all’essenziale, poche parole in una pagina bianca e dilavata, quasi una risposta al brusio e al rumore di fondo di un mondo esterno avvertito come qualcosa di terribile. La parola dell’ultimo Caproni si frantuma, si fa semplice e leggibilissima da chiunque. Tutto si dissolve in uno spazio tempo vuoto, dove il male assume le forme non più di alcuna divinità (Dio e il diavolo sono ormai parole vuote), ma quella transitoria e irreali di una bestia mostruosa che si aggira nei boschi (il tema dell’ultima raccolta, Conte di Kevenhüller dell’86). I viaggiatori, i cacciatori, le voci (delle poesie) si muovono tra osterie e stazioni di sosta, in ore quasi sempre prossime al crepuscolo, quando la ragione si allenta e i terrori del subconscio strisciano fuori dai propri nascondigli nei labirinti della mente. Hoffmann si mescola con la filosofia in una frantumazione dell’io sanguinaria e macabra che si riallaccia con la prosa letteraria più originale del periodo (su tutto i doppi e le dissociazioni alla base dell’ultimo ed estremo Petrolio pasoliniano). Nelle brughiere del Franco Cacciatore l’umanità ormai è evaporata senza lasciar traccia se non ombre o un lieve pulviscolo di bisbigli appena fuori dalla finestra. L’originalità di questo poeta che ha vissuto tra Livorno, Genova e Roma è tutta qui, nella capacità di costruire testi brevissimi, leggibili, molto narrativi, eppure imbevuti di filosofia, ironia macabra e paesi finzionali abitati da doppi e fantasmi talvolta caricaturali. In Caproni è la parola la vera artefice magica che mette in movimento la giostra di fantasmi, una parola che ha il potere ingannatore e distruttivo di annullare il reale e dissolverlo:
“Le parole. Già.
Dissolvono l’oggetto.
Come la nebbia gli alberi,
il fiume: il traghetto.”
I borghi ultimi di Caproni appaiono in pagine frantumate, dove le parole sembrano davvero galleggiare sopra il bianco della pagina, in larghi intervalli che suggeriscono una paura strisciante e mai definitivamente spiegata. I borghi e le foreste paiono abitati da doppi, in anticipo su alcune pagine altrettanto belle di Thomas Ligotti, penso soprattutto a Monte Magro (ultimo racconto contenuto in Nottuario, 2017), un luogo imprecisato, tra la vita e la morte, tra la veglia e il sonno, “tra fili di nebbie sospese, alberi accartocciati, favolosi picchi che sembrano dita (…) giorni in penombra e la stregoneria delle sue notti”. Righe che paiono involontariamente fare il verso a quelle della poesia L’ultimo borgo del Franco Cacciatore:
“Ora
Sapevano che quello era
L’ultimo borgo.
Un tratto
Ancora, poi la frontiera
E l’altra terra: i luoghi
Non giurisdizionali.”
Il Franco Cacciatore è un libro di doppi che si rincorrono l’un l’altro, scambiandosi anche i ruoli, da vittima ad assassino, da spavento a spaventato; nella raccolta successiva, l’ultima uscita con l’autore in vita, il discorso si concentra sul male, ed è Caproni, in varie interviste della seconda metà degli anni ’80 a chiarire il concetto. Nel Conte di Kevenhüller la bestia a cui si allude, la fiera feroce che si aggira nei boschi gelidi e nebbiosi delle poesie, non ha una vera forma, anche se si riferisce a lei come una nebulosa (qualcuno si spinse fino a prefigurarci la nube tossica di Chernobyl) che scaturisce da noi stessi. La Bestia comincia dove frana la ragione dell’uomo, quando non si ragiona più e si cede alla parte oscura che risiede dentro ciascuno, un male che si genera dalla nostra coscienza e che Caproni fissa sulle pagine ricorrendo al minor numero di parole possibili, quasi alla ricerca di una forma poetica (di un’idea pura di poesia) che, come nell’opera musicale, è pensiero puro senza la parola (vista sempre da Caproni con sospetto, come forma di simulazione e mistificazione del reale).
Giungendo alle conclusioni di questo contributo, mi rifaccio a un capitoletto del bel saggio su Caproni di Adele Dei, L’orma della parola (Esedra, 2016): le poesie di Caproni, soprattutto degli ultimi quindici anni di attività, disegnano una geografia dell’antinferno, paesaggi indistinti e nebbiosi, “io” che paiono bloccati in una dimensione sospesa tra passato e presente, in un mondo intermedio che il vuoto sempre crescente tra le parole desertifica ulteriormente. La metafora del viaggio (senza ritorno) è alla basa di buona parte di queste poesie, spesso abbozzi inconclusi di storie in cui appaiono confini, porte, stazioni, ponti illuminati dall’ora del crepuscolo o dell’alba. Una geografia instabile e intermedia tra la vita e la morte, insomma, dove spesso, in sottofondo, riecheggiano gotici rintocchi musicali. Alla fine prevale il bianco delle pagine, vuoto dentro cui sbiadiscono i ricordi e le figure della vita.
Se sfogliamo le pagine del Soprannaturale letterario di Francesco Orlando salta agli occhi come il nuovo soprannaturale letterario risalga, nel ‘900, a Kafka: un soprannaturale radicalmente nuovo, gettato “davanti al lettore, subito e tutto, con totale violenza e nella sua integralità”, un fantastico allegorico che non trova più referenti precisi ma che scopre nell’indeterminatezza tutta la sua forza e originalità, caricandosi per questo di un significato e un valore universale. Un fantastico di imposizione che si mescola nel quotidiano e dal quale trova forme e figure differenti da quelle della fiaba. Prendiamo ora un importante studio di Enzo Puglia, Il lato oscuro delle cose, archeologia del fantastico e dei suoi oggetti, Mucchi 2020: a un certo punto l’autore spiega come il genere arrivi a una svolta decisiva all’altezza del Giro di Vite di James, un racconto di fantasmi dove i fantasmi non si mostrano affatto, diventando davvero astratto, un’idea filosofica più che un espediente narrativo. Su questa linea, per Puglia, anche il Buzzati del Deserto dei Tartari o il Pirandello davvero spettrale di Uno nessuno centomila, in cui qualche cosa di indicibile e nascosta manda in frantumi la coscienza del protagonista.
L’industrializzazione ha ulteriormente costretto la narrativa fantastica a nuove mutazioni, tuttavia le lampadine e l’incandescenza non hanno dileguato le ombre che ci portiamo dentro. Nelle ultime pagine del suo saggio Puglia sottolinea questo concetto, dimostrando come da Bloch a Derrida il fantasma sia diventato il simbolo di una meditazione che si espande in innumerevoli direzioni e che non ha ancora esaurito le sue funzioni, anche all’interno di un mondo sempre più connesso e informatizzato, dove dati e segnali attraversano l’etere, affollando l’invisibile. La poesia di Caproni è, ancora oggi, un lascito originalissimo e unico. Mentre il gotico si spegneva sugli schermi e nella carta stampata (gli ultimi fuochi degli anni ’70, i fumetti horror degli anni ’80, le censure dei ’90, le effimere mode del weird degli anni ‘10), Caproni riprendeva elementi retrivi del fantastico e li calava in una forma di perturbante frantumato e pulsante che assomiglia perfettamente a quello minaccioso e ingovernabile in cui viviamo.