Horror

Ninnananna ’92 - ‘93: Acme, Almanacchi della Paura e Hotel Raphael

Venerdì, 09 Dicembre 2022

Ombre di un passato che non passa. Ombre di tenebra liquida. Ombre di rancore. Dalle pagine degli interni de Il Giornale dell'8 agosto 2022 si commenta la sentenza sulla trattativa Stato – mafia. Nessun reato per i carabinieri del Ros, ombre ingenerose sull'allora Presidente Oscar Luigi Scalfaro. La trattativa tra Scalfaro e Ciampi. Le stragi di Roma e Milano. Il black out a Palazzo Chigi. Me li ricordo.

Volti, nomi, facce, date di un mondo prossimo alla scomparsa, mai veramente sepolto come tutto in Italia. In questa estate di pandemia, guerra e canicola i fantasmi degli anni ’90 sono tornati a cercarmi. Letture, visioni, vecchi fumetti che ho conservato e ritrovato. Non sono un politologo, un giornalista. Mi limito alla passione dilettantesca per l’horror. Di horror allora ce n’era davvero parecchio. Nella fantasia e nella realtà. Soprattutto nella realtà. Dopo gli anni ’60 e ’70, i primi anni ’90 – per stagione brevissima – sono stati una golden age mai veramente studiata. Troppe cose, in troppo poco tempo. Di mio ricordo (e conservo) parecchio. Non ho voglia di andare a cercare ogni volume, di fare citazioni precise, fa troppo caldo, con l’età sempre più pigro. Accontentiamoci di brevi cenni confusi. Dalla Stampa del 26 luglio 2022 ho ritagliato un pezzo su un concerto per via Palestro. Via Palestro a Milano, era il 27 luglio 1993. Una bomba mafiosa, cento chili di tritolo in una notte afosa e desolata di allora. Lo ricordate? Cattelan aveva realizzato a caldo un’opera con le macerie di quell’esplosione, macerie del Pac, il padiglione dell’arte contemporanea. Ora con l’orchestra sinfonica di Milano ha curato l’esecuzione del Requiem di Mozart nel set sospeso del cimitero Monumentale. L’evento musicale ha come titolo Lullaby, ninnananna, come l’opera scultorea nel ’94. Ninnananna per una società italiana avvolta nel sonno o nel sogno. Una società incantata dai suoi mostri, suggerisce l’articolo.

Mostri era il nome di una rivista della Acme uscita nei primi anni ’90, la gemella di Splatter sempre della Acme. Tra la fine dell’89 e fino al ’91 le edicole di quei miei 15 anni si erano nuovamente riempite di incubi. C’era il successo fuori controllo del Dylan Dog della Sergio Bonelli, i fumetti della Acme, quelli della Play Press ispirati alla saga di Hellraiser, i fumetti della Profondo Rosso, i GoreScanner della Ediperiodici. Si tornava a parlare di un certo cinema di genere dimenticato. Si (ri)scoprivano le figure dei padri: Bava, Fulci, Freda, Argento. Splatter voleva recuperare la lezione di riviste come Horror di Gino Sansoni (edita nel ’69, nelle edicole poco prima di un’altra bomba, quella di Piazza Fontana), una via tutta italiana per riattualizzare le formule dei fumetti antologici della E. C. Comics e dei fumetti Warren con Zio Tibia (traduzione geniale nostrana di un personaggio che trovava la sua via sempre in quel ’69, in una prima antologia per Mondadori). Splatter della Acme era un prodotto adatto per i nuovi tempi. Storie brevi, nervose, in cui il cuore pulsante era la rappresentazione di un orrore fisico, per nulla psicologico. Le icone di Freddy Kruger & Company ci attiravano con copertine colorate e graficamente violentissime. Corpi segati, mutilati, nefandezze, cannibalismo, automutilazioni, un erotismo deragliato e un umorismo nero discutibile che allora, almeno su quel me stesso quattordicenne facevan parecchio presa. Compravo e nascondevo alla meglio, un po’ come Bissoli coi Racconti di Dracula (che doveva leggere nei loculi dei cimiteri del veronese).

Ciò che più mi piaceva non erano i fumetti sgangherati, quanto le pagine dedicate al cinema di genere o alla letteratura. Per questo compravo e leggevo soprattutto la rivista Nosferatu, sempre della Acme. Prima di Amarcord e di Nocturno, Nosferatu - insieme agli Almanacchi della paura di Dylan Dog - ha rappresentato la mia chiave d’accesso a un cinema nascosto di cui avevo visto poco, occhieggiando solo a tarda sera (erano anni in cui gli adulti non erano ancora vessati dalle nuove regole pedagogiche e le maglie dopotutto erano parecchio larghe) qualche televisione privata regionale. Mi bastava qualche fotografia, la trama scarna letta su una guida Tv per infiammare il cervello. Erano gli anni delle videoteche, il boom dei noleggi. Bastava avere due videoregistratori per duplicare qualunque cosa. Con un mio amico (con cui poi avrei iniziato a girare dei filmini sgangherati e trash, cosa che non ho più smesso di fare) andavamo nelle videoteche della nostra città e cercavamo i titoli pubblicizzati su Nosferatu, oppure spulciavamo i cataloghi, in adorazione fermi dinanzi agli altari con le VHS esposte di facciata, gli horror messi sempre accanto alla tenda di perline intrecciate che faceva accedere alla saletta esoterica dei porno. Quei film, quelle riviste (forse perché le dovevo nascondere) erano ammantate di proibito, di un gusto magico e meraviglioso che non avrebbero perso. Su Nosferatu ho imparato tutto quello che dovevo imparare, il resto dopo, è stato quasi inutile. Altri fumetti (trash, ossia emulazioni fallite, come diceva il geniale Tommaso Labranca) meteora. Ricordo i Gordon Link di Gianfranco Manfredi, i Dick Drago, gli Elton Cop, gli Angel Dark di Max Bunker, anche lui bramoso di riciclarsi nel nuovo clan degli orrori, tutti impegnati in una gara a chi sarebbe stato più estremo. Forse allora quella roba sembrava interessante, in realtà partecipava a un clima pesante che avrebbe dato il meglio non sulla carta ma nella realtà. Certo non tutti erano solo violenza e squartamenti.

Gordon Link era un fumetto parecchio intelligente e azzeccato, anche certe storie che trovavi su Profondo Rosso non erano male (per il resto la rivista si limitava a rieditare vecchi fumetti horror americani), penso soprattutto alla roba scritta da Davide Longoni, mente dietro anche ai fumetti della Full Moon project. Cosa dicevo? Ah sì, il clima. Pesante. Nel ’93, quando ormai era già tutto finito, Stampa Alternativa buttava fuori un millelire (la collana più bella di allora) di Teresa Macrì dedicata al fenomeno dello splatter a cui quelle pubblicazioni si rifacevano. La Macrì spiegava che la cultura splatter era un’insana passione per l’orrore che nasceva dal quotidiano, una contestazione nata all’interno del genere horror convenzionale, sulla scia dei Libri di Sangue di Clive Barker e dalle esasperazioni dei nuovi registi degli anni ’80, in particolare Frank Henenlotter, Jim Muro, Sam Raimi, Peter Jackson, fino agli estremi Shinya Tsukamoto e Jorg Buttgereit (autore di un filmino sconcio in super 8 sulle gesta di un necrofilo tedesco). Il cinema splatter (e così la letteratura) voleva rispondere alla violenza del potere sui corpi con altra violenza creativa, far esplodere le pulsioni aggressive e brutali che si nascondevano nei labirinti dell’animo umano. Violenze che circolavano nell’aria che si respirava. Letteralmente. Ricordo infatti le voci dal profondo di Radio Radicale, un esperimento situazionista in cui, dall’anonimato, saliva una marea schiumante di rabbia, razzismo, misoginia e surrealismo delirante che allora ci faceva solo sorridere. Clive Barker. Anche lui riemerge dalle nebbie di quella stagione. Ricordo che cercai con difficoltà i suoi libri di racconti, Infernalia ed Ectoplasm, usciti per Bompiani con traduzione del kinghiano Tullio Dobner e copertine di Aurelio Raffo. Da noi Barker non ha avuto una vita editoriale lineare e limpidissima. Solo ora Fanucci sta nuovamente editando e traducendo i sei volumi dei Libri di sangue, accompagnandoli con una prefazione malinconica del medesimo Barker, prefazione quasi postuma in cui si limita a ricordare come quei racconti viscerali e violenti siano dei giri di giostra oscuri, animati da un’eleganza demoniaca ed eccessi sessuali che un puritano come Stephen King non avrebbe manco pensato.

Erano i primi anni ’90 e la mia generazione poteva annusare e filtrare il mondo dei grandi con quei fumetti, quelle visioni che ci proiettavano in un darkness tutto occidentale. Videoteche meglio delle scuole (una parentesi, quando mai le scuole sono servite a qualcosa? tutto quello che ho imparato, che mi interessava, non veniva mai da quel mondo convenzionale, da quelle persone ingrigite che si limitavano a ripetere anno dopo anno le medesime nozioni), con gli Almanacchi di Dylan Dog a farci da libri di scuola, a indicare le collane e gli autori da cercare. Emergeva così la figura terminale di un Fulci barbuto e smagrito, sorta di barbone stropicciato e incazzoso che vendeva le sue ultime sgangherate mercanzie fatte di gatti nel cervello, suore demoniache e raccolte di racconti per Granata Press. (Quel Fulci barbone, con cappotto spesso, camicia da boscaiolo stropicciata fuori dai calzoni, somigliava a uno di quei personaggi che si aggiravano allora furtivi per la città. Mattoidi dimenticati, eroi dell’ombra che non avevo il coraggio di avvicinare ma a cui sentivo di somigliare moltissimo e che non avrei più rivisto, piallati da un mondo in cui non avrebbero trovato posto, nemmeno ai margini. Fulci poteva essere uno di loro, un incazzoso vecchietto che ai giardini spiava sotto le sottane delle bimbe sulle altalene, col cartoccio di Tavernello e le chiazze d’unto sulla camicia.

In quell’alcova di matti ricordo l’avvocato, un tizio che si aggirava nei pressi della stazione, rovistava i rifiuti, ben vestito, alto, pelato come una boccia e con un abito da cerimonia nero spiegazzato che doveva ricordargli i tempi in cui non era ancora invisibile. Poi c’era il guardiano della fabbrica, un tizio che se ne stava a vivere dentro la pancia piena di ruggine di un complesso industriale abbandonato, lui diceva di farci il guardiano ma non era vero. Si divertiva a scacciare e spaventare i ragazzini, portava sempre dei guanti ruvidi da lavoro e aveva un cane lupo rattoppato come lui. Un altro, Masoero, aveva barba e capelli alla mangiafuoco, se ne stava spiaggiato sulle panchine nei giardini della stazione, ruminava nei rifiuti e basta. I migliori: Burgio, un eroinomane magro, bassissimo, sempre in bicicletta col cane lupo al seguito. Burgio vestiva con canotta, fascia di spugna sulla fronte e chiodo nero. Capelli unti e lunghi immobilizzati dalla fascia di spugna. Estate, inverno, sempre col chiodo. Girava iper-agitato per i viali, pedalava inquieto, lo sguardo perduto di chi è perso nella sua oscurità. Morì di overdose, lo ritrovarono su una panchina, anche se altre voci dicono che sia morto in seguito a un pestaggio. Poi veniva Neutron, soprannominato così da me per il modo di camminare, lento, strascicato, le braccia totalmente immobili lungo i fianchi, lo sguardo svuotato, senza emozioni. Era alto, barba nera e folta, complessivamente ben tenuto, nel senso vestito in modo anonimo ma non lercio come gli altri. Si aggirava a piedi con la sua camminata da robot mesmerizzato, lo avvistavi in centro, in periferia, una volta persino in bicicletta (e pedalava come camminava!). Altre volte lo vedevi su qualche panchina, in compagnia di una famiglia di ipovedenti sovrappeso che frequentavano il reparto di psichiatria dell’ospedale di Vercelli. Fumavano, ognuno assorto nei propri pensieri, indifferenti del resto del mondo. Neutron avrebbe figurato bene nel cimitero di Buffalora, anche lui a occuparsi dei morti che risorgevano dalle tombe. Fulci sembrava ai miei occhi uno di loro, uno che poteva vantare di aver fatto il regista, che magari si aggirava sproloquiando di vermi nella pipa e lumache per le vie del centro).

Anni di matti e di piccoli editori che sparivano dall’oggi al domani. Prima della superflua moda dei cannibali. Prima dei dvd e dei bluray. Ultime pellicole italiane prima di una stagione di ripiegamento e notte profonda. Noi allora eravamo un pubblico poco istruito di ragazzini e ci facevamo andare bene tutto, dalle tv corsare a copie dupplicate decine di volte di qualunque cosa purché fosse un horror. Ricordo che c’era un tipo a Vercelli da cui andavi di nascosto, sembrava quasi un pusher, uno che aveva già riversate su VHS le pellicole che avevano al cinema. Ci andavi per passaparola, poi la finanza lo beccò e sparì. Era un ometto di mezza età, magrissimo e sospettoso. Il suo appartamento era piccolo, senza finestre, senza luce, con centinaia di rosari appesi ai muri. Più avanti avrei comprato da altri tizi strani, uno era l’ex regista Luigi Cozzi, pure lui ti vendeva film dupplicati in barba. Erano le ultime tracce di un estremismo che rinfocolava dal basso e dilagava dappertutto. Mentre frequentavo annoiato un istituto tecnico avveniva di tutto. Tutto cominciò a crollare nl ’92. Il Trattato di Maastricht con l’Italia costretta a mettere mano per l prima volta ai suoi conti sballati, fuori controllo. Il 23 maggio la strage di Capaci e la morte di Giovanni Falcone. Il 19 luglio quella di Paolo Borsellino. Io ero a Pontremoli, alla gelateria Alvaro, coi miei genitori e con Elisa, una mia compagna di scuola.

Avevo 17 anni e la testa piena di caroselli fantasma. Intanto lontano da dove vivevo i veri mostri sventravano un condominio in via D’Amelio, rivelando un’Italia piena di crepe, un luogo che faceva davvero paura anche se lo vedevi solo dai teleschermi azzurrini della sera e non era frutto di una sceneggiatura. La Prima repubblica stava finendo male, anzi malissimo. Ricordo a malapena i commenti sarcastici sulla furia demolitrice dell’ultimo Cossiga, professori che leggevano Cuore in classe e dileggiavano gli ultimi politici. Eugenio Scalfari dalle colonne di Repubblica sparava cazzate, inneggiando a un paese che stava rinascendo, liberandosi dalla pesante zavorra accumulata dall’immobilità dei partiti. In televisione c’era la faccia inquieta e clownesca di Gianfranco Funari, con le sue mentine e i sorrisi mentre si avventava contro la massa di ladri che si annidava nei partiti. Riemergevano i divari incolmabili tra Nord e Sud, le contrapposizioni tra privato e pubblico, tra società civile e politica. Intanto la classe operaia si sentiva marginale e superflua, superata dal terziario e dalla globalizzazione. La bufera vera e propria arrivò nel ’92 e cominciò a Palermo. Poi salì a Milano. Tangentopoli, il pool di Milano, gli arresti, i suicidi, la morte di Gabriele Cagliari, quella di Sergio Moroni, quella impensabile di Raul Gardini. Giulio Andreotti veniva trascinato in un lungo processo, imputato di corruzione mafiosa, le misure drastiche del governo Amato.

Nel ’93 le imitazioni trash di Dylan Dog non esistevano già più. La Acme era defunta. Fulci sognava di girare pellicole che non avrebbe mai girato e si faceva filmare da Antonietta De Lillo su una sedia a rotelle. I fumetti della Profondo Rosso erano naufragati già dal dicembre del ’91. Ciampi invece si apprestava a guidare un esecutivo di larga maggioranza. Siamo nell’aprile del ’93. A maggio scoppiano le bombe mafiose a Roma, Firenze, ancora Roma e infine quella a Milano. Il collasso dei partiti è palpabile. Ricordo un professore che nel laboratorio di chimica cazzeggiava con lo spago, costruiva piccole forche per i socialisti (pure lui sarebbe finito male, il corpo sconciato per una caduta dalle scale molto sospetta, vista la risaputa passione per il gioco d’azzardo e certe brutte frequentazioni in quegli ambienti sotterranei). Di quell’I.T.I.S. primi ’90 ricordo con molta nostalgia anche un altro assistente di laboratorio, un ometto piccolo e quasi trasparente. Gentile con noi, colto, una vocina sempre controllata. Sapevo che veniva da quegli anni ’70 che cominciavano ad attirarmi come una calamita. Aveva studiato a Trento con Rostagno, era stato amico di Curcio, in passato aveva avuto dei guai perché sospettato di vicinanza con le BR. Si impiccò poco tempo dopo il mio diploma, forse perché non si riconosceva più dal nuovo che stava emergendo. Perché c’era davvero un disorientamento rabbioso che colava fuori dalle pagine dei giornali, dalle televisioni. Solo a notte fonda quei rigurgiti finivano. Su Raitre rimanevo alzato fino ad orari improponibili, oppure programmavo il videoregistratore con l’ansia di sbagliare col timer, cercavo sempre sui palinsesti, alla ricerca di film horror che non avevo mai visto. Rai Tre allora era all’avanguardia. Blob, l’horror che saliva dalle viscere di Palermo con Cinico Tv, le prime proiezioni di La notte dei morti viventi di Romero, Halloween di Carpenter.

La mattina intontito, sentivo i grandi bofonchiare su Mafia, stragi e su un governo occulto e criminale che doveva fare una brutta fine. Nel terzo Almanacco della paura di quel marzo ’93 si parlava della Casa nera di Craven, del Fantasma dell’Opera con Englund, del bellissimo Demoniaca di Richard Stanley, storia di un demone solitario che andava a caccia di persone senza più alcuna speranza, film girato in un bellissimo deserto della Namibia, tra folklore locale, omicidi efferati e un cinemino scalcinato sommerso dalla polvere dove veniva proiettato L’uccello dalle piume di cristallo di Argento. La locandina mangiucchiata dagli elementi, piccole lampadine ad addobbare uno schermo lercio e strappato. La magia del cinema e i miei 18 anni. L’AIDS si portava via un attore amatissimo come Anthony Perkins, Dario Argento in America girava Trauma, il suo ultimo film a valere qualcosa, leggevo in trance Gemini Killer di Peter Blatty, La bara di Richard Laymon, i racconti di Clive Barker. Stephen King scriveva un romanzo stranissimo e affascinante su una donna ammanettata a un letto preda dei suoi incubi rimossi, intanto Craxi alla camera sferzava i colleghi deputati a trovare una soluzione politica per Tangentopoli, invitando tutti a prendersi le proprie responsabilità. Al sud la mafia progettava stragi mai fatte, come disseminare Rimini di siringhe infette o abbattere la torre di Pisa. Incenso, pire e roghi bruciavano un po’ ovunque.

L’ubriacatura legalitaria gridava a favore del pool di Milano, ma si dimenticava di guardarsi allo specchio, “uno specchio che rifletteva milioni di italiani mimetizzati nella penombra e nel sommerso, esistenze arrangiate, professionisti dell’evasione fiscale, artigiani senza fattura, commercianti senza scontrini, statali illicenziabili, medie e piccole e piccolissime imprese preoccupate di arrivare al piano più alto, classi confindustriali pluriclassiste che procedevano per cooptazione familiare, conventicole, compartimenti stagni dove i figli degli ingegneri e dei notai e degli architetti, impiegati della notizia, piccole tribù, piccole caste, cooperative rosse e bianche, sindacati senza lavoratori, pensionati abituati a un benessere pagato dalle trattenute Irpef del figlio, a cui però raccontavano che lo stipendio era magro per colpa dei politici. Uno specchio vecchio come la prima Repubblica, ma che, nelle parti più ossidate, lasciava ancora intravedere i profili scontornati delle generazioni che dal dopoguerra avevano rinunciato a farsi borghesia, prediligendo l’imborghesimento (…) quel pubblico sprofondato in una poltrona pronto ad applaudire a ogni arresto, detto impietosamente, forse non era neppure composto dai disillusi italiani di trent’anni dopo: quelli che oggi -si dice – hanno i politici che si meritano. I politici, a quel tempo, con i loro vizi ed errori, tutto sommato, forse, erano ancora migliori di chi li votava1”.

E poi in ordine sparso, il falso attentato del 21 settembre ’93 alla Freccia dell’Etna, la Fiat 500 imbottita di esplosivo trovata dopo una segnalazione in via dei Sabini vicino a Palazzo Chigi, il blackout che isolò Palazzo Chigi e lasciò al buio e alla paura il Presidente Carlo Azeglio Ciampi, grotteschi progetti di colpi di stato, assalti alla Rai, attentati minori rivendicati da una fantomatica Falange Armata. Intanto l’ansia di Mani pulite, dopo aver abbattuto quel che rimaneva della vecchia classe politica, stava per scoperchiare il vero volto del cittadino medio che vive di piccoli espedienti, amicizie, raccomandazioni, bustarelle, irregolarità nei cantieri e nei piccoli esercizi pubblici. Il ceto medio ingrassato e viziato decise che di forche e cacce alle streghe si poteva cominciare a fare a meno, che l’idea di Stato era qualcosa di astratto e che si poteva nonostante tutto continuare a vivere nell’illusorio benessere degli anni ’80. E così, mentre leggevo di vampiri nella Slesia e di vrykolakas, la società italiana avvolta nel sonno sognava i suoi veri mostri. Si rifugiava nell’illusione di non aver fatto nulla di male e che il male erano sempre stati gli altri. Qualcuno doveva pagare. Umberto Eco ha parlato a più riprese della tara di questo paese, un fascino greve per una progressione geometrica verso la rissosità, lo scontro, il conflitto tra guelfi e ghibellini, tra fascisti e antifascisti, tra rossi e neri, una fascinazione condivisa verso il purulento mondo inorganico della morte e dei liquami. Italia necrofila, Milano, Hotel Raphael, Craxi e il coraggio di affrontare quella marea di corpi epilettici. Una pioggia di sampietrini. Monetine. Una folla di zombi rabbiosi e giustizialisti. Una replica in scala di Piazzale Loreto col cadavere del Duce appeso a colare per i piedi. Una violenza selvaggia, facce inferocite immortalate in giorno (30 aprile), un’ora (le 20 e 05), istanti congelati dalle telecamere dei cronisti. Il nuovo sarebbe arrivato sotto la forma di una mummia robotica (così la descrive Giampaolo Pansa sull’Espresso del 4 febbraio ’94) uscita dai canali televisivi.

Un fantasma pieno di cerone e con pochi capelli che dalle oasi di lusso di Milano 2 - piena di manager in ascesa e mediatori finanziari che lì si erano rifugiati per sfuggire alla Milano sporca e violenta degli anni ’70 coi suoi cortei di giovani di destra e di sinistra – si aggira per lo Shopville Gran Reno, prima di finire davanti a un video con un filtro flou che pare una calza ma calza non è. Salvatore Riina. Craxi lucidissimo il pomeriggio del 29 aprile ’93 nel capire che la criminalizzazione di massa dei partiti avrebbe aperto un processo inarrestabile, un esorcismo collettivo per scaricare le responsabilità di tutti solo sul ceto politico. Falcone. Borsellino. Raul Gardini. Federico Fellini. Sofri. Bompressi. Pietrostefani. Scalfaro. Di Pietro. Silvio Berlusconi in una teca mortuaria, una mano su un fascicolo della Acme, l’altra nella patta slacciata dei pantaloni, un sorriso soddisfatto, l’ultimo, sul viso di cera.

Quindi? Cosa si è voluto dire accostando in modo pretestuoso dei fumetti horror dei primi anni ’90 col collasso delle istituzioni? Che partecipavano al qualunquismo del periodo, davano la medesima lettura gerarchica e pietrificata del potere, semplificavano graficamente una violenza di massa che stava per esplodere a causa di una amputazione democratica (Berlinguer) che aveva paralizzato l’alternanza politica della Prima Repubblica? Che inscenavano già cristalli di rancore (il qualunquismo di sinistra di Scalvi che trapelava a valanghe dalle pagine di Dylan Dog, con accuse generiche verso un potere liberista che vampirizzava le illusioni e sostituiva il consumismo con l’impegno, senza però saper valorizzare il benessere diffuso e le riforme sociali che a quel consumismo si erano accompagnate nel corso di un ventennio), pillole alternative di un rovesciamento di massa in cerca di un capro espiatorio? Che quel biennio (’92 – ’93) - a differenza dei mitizzati anni ’60 e ’70 (di cui non rimane più nulla, liquidati dalle molteplici trasformazioni del mondo) – ha generato una insoddisfazione sproporzionata di cui non ci siamo più liberati, che c’era il bisogno di trovare un capro espiatorio (un’intera classe politica che nel bene e nel male aveva maturato un’esperienza inestimabile nel governare) a cui far pagare l’astratta sensazione che un certo mondo stesse finendo, che presto ci avrebbero fatto pagare un conto salatissimo per aver vissuto furbescamente al di sopra delle nostre possibilità? Altri ricordi frammentari.

Di Pietro mi è capitato di vederlo a Bologna. Saranno stati i primi anni 2000, lui era già in politica, era sotto gli archi della via che dalla stazione porta in piazza maggiore. Aveva un megafono, era sudatissimo, gli occhi elettrici. Stava a due passi da un gazebo. Era agosto, la gente gli scorreva accanto indifferente e lui cercava di imbonirli, di farli firmare per non so che cosa. Gridava contro la nostra indifferenza, ci puntava con gli occhi e ci sfidava a firmare. Io e un mio amico ci siamo fermati appena dietra a due colonne per non farci avvolgere dal suo gorgo, dai suoi occhi di medusa. Lui urlava sul pericolo imminente sulle nostre teste, sul fatto che se non avessimo firmato sarebbe finita male. La gente lo ignorava, infradito e abbronzature cattive al massimo gli gettava occhiate appena curiose, poi svaniva nel gorgo agostano. Io e l’amico siamo rimasti lì per un po’, a spiarlo più che ad ascoltare quel che diceva. La sua furia. Il sudore. Gli occhi spiritati. A due passi dalla stazione in cui era scoppiata una bomba vigliacca vent’anni prima. A Bologna ci andavo per un giro nelle vie del centro, a comprare un po’ di libri alla Feltrinelli davanti alla torre degli Asinelli (quella scalata da Carmelo Bene per declamare il suo Dante in commosso e civile omaggio non ai morti ma ai feriti dell’orrenda strage). Andavo a Bologna d’estate come in pellegrinaggio, a far mucchi letture, dischi, poi passavo in una via laterali dove c’era un negozio (Mondo Macabro? non ricordo) di dvd specializzato in robe horror e di genere. Ci compravo i primi Nocturno, le Vhs della Something Weird, la roba della Redemption inglese su Rollin o Mario Bava. Spendevo anche quel che non avevo. Paghette, furtarelli dalle borse dei miei, risparmi, tutto. Sempre in quei primi anni ’90 ricordo i Millelire della Newton Compton, la possibilità di comprare e leggere molti autori sconosciuti a pochissimo, li compravi a pacchi nei supermercati, in un cesto vicino alle casse del Continente (poi Carrefour di Vercelli). Leggevo i primi Lovecraft in quelle edizioni, e poi negli Oscar Mondadori curati da Giuseppe Lippi.

La notte su Italia 1 il pupazzo di Zio Tibia si sbracciava nella sua cripta accanto a teschi di plastica, ragnatele sintetiche e le bare di Falcone e Borsellino sullo sfondo. Mentre scrivo questi lacerti, fuori di qui, da questo computer, da queste parole, c’è una guerra in corso, una pandemia, una siccità e altre piaghe. La paura oggi, più che la noiosa narrativa degli anni zero (Evangelisti, i cannibali, Nerozzi, Arona, Vergnani)  sono i lampioni rotti nelle periferie, i richiedenti asilo, le bollette spropositate, il welfare della mafia (che esiste ancora e arriva prima e meglio dove lo Stato non ha funzionato), la pandemia economica, l’operaio sindacalizzato e tutelato per anni che non è più al centro di nulla e vota a destra, il ceto medio produttivo spaventato dalla concorrenza dei superstore cinesi e vota a destra, l’irrilevanza dei circoli intellettuali gauchisti di sinistra che non hanno più pescaggio nel paese reale. La paura oggi è fatta di fragilità e solitudini, territori marginali in cui non penetra nulla, cultura, cittadinanza, reddito, futuro. Più che la letteratura (serve qualcosa leggere l’ultimo vincitore del premio Strega?) è la graphic novel italiana ad essersi spinta di recente su queste lande (Aka B., Marco Galli, Spugna, ?), portandosi talvolta dietro il limite di una retorica stereotipata e superata al liberismo. Questo è il mondo nel quale viviamo e che dobbiamo imparare a guardare liberandoci dall’ottica distorta di ideologie superate. Altre paure. Altre metamorfosi. Altri incubi.

  1. Filippo Facci, La guerra dei trent’anni, Marsilio 2022 , p. 30