Per brevi stagioni ho compulsato casualmente parecchi volumi, spaziando da autori classici a iper-contemporanei senza soluzione di continuità. Aggiungo che, da buon studente di un istituto tecnico, senza alcuna formazione regolare negli studi classici, non ho mai nutrito particolare reverenza o soggezione nei confronti dei grandi autori. Se un autore mi piaceva bene, altrimenti pazienza, anche se si trattava di uno dei pesi massimi della nostra letteratura. Leggo per piacere, anzitutto, non per farmi bello in qualche circolino letterario. Cerco quel che mi serve, che mi piace. Bene.
Leggendo il volume L’estremo italiano a cura di Emanuele Zinato (Treccani 2020), scovo un saggio di Marianna Marrucci sulla poesia italiana di questi ultimi vent’anni. Marrucci espone studi e teorie sulla scrittura in versi, oltre a suggerirne alcune caratteristiche di base: una forma di scrittura che ha moltiplicato le proprie traiettorie formali, mescolandosi sempre più con altri linguaggi, arrivando a continui sconfinamenti. Marrucci propone poi un interessante confronto tra chi, come Andrea Cortellessa, ha una lettura felice della poesia di oggi e chi invece ne sottolinea un esaurimento definitivo. Su questo versante il critico Guido Mazzoni, il quale individua due date chiave che segnano l’origine di quella che possiamo definire la poesia più recente, la prima il ’71 (anno di pubblicazione di Satura di Montale e di Trasumanar e organizzar di Pasolini). Mazzoni vede un esaurimento generale della letteratura e in particolare della poesia, citando non a caso i due libri limite di Montale e Pasolini come una scrittura che tende alla rapidità, al linguaggio giornalistico (Montale) e alla sciattezza (Pasolini).
Dagli anni ’60 il peso fortissimo su tutto quanto si scrive in versi è quello dei Novissimi (Pagliarani, Porta, Sanguineti, Giuliani, Balestrini) che portano all’interno dei loro testi le voci, i suoni, la violenza, l’alienazione della società industrializzata. Anche poeti estranei (per generazione e formazione) a quel contesto (Caproni, Zanzotto, Sereni, Giudici, Bassani) ci devono comunque fare i conti. L’altra data tracciata da Mazzoni è quella del ’79, anno in cui si tiene il primo festival di poesia sul litorale della spiaggia di Ostia. Il Festival di Castelporziano. Ne ho parlato di recente all’interno di un pezzo su Mark Fisher. Ne riprendo un estratto. “Cosa fu Castelporziano? Un festival originale di poesia organizzato nella spiaggia romana con una partecipazione di numerosi poeti italiani e internazionali. I poeti avrebbero dovuto salire sul palco, leggere le loro poesie, confrontarsi col pubblico. Non andò esattamente così. Su quegli ultimi giorni di giugno, cerniera definitiva tra gli anni ’70 e tutto il resto fino a noi (oltre che cerniera definitiva tra quello che fu la poesia prima e dopo quell’evento), esiste un bellissimo documentario, oltre che un libro meraviglioso di Franco Cordelli, Proprietà perduta (L’orma editore, 2016). Sfogliando le pagine del libro di Cordelli è possibile farsi un’idea precisa di cos’è stato (o non è stato) quel festival: un palco enorme davanti al mare, sacchi a pelo, una distesa di ragazzi nudi, lattine di birra, zaini, fumo. I giovani poeti italiani, soli, sul palco, offerti in pasto a un pubblico rabbioso, incazzato, ironico, dispettoso, per nulla disciplinato. Un Lambro al quadrato, con gente che lancia bottiglie, schiamazza, fischia, insulta, prende il microfono e zittisce i vari poeti. C’è chi se ne sta in disparte sdegnato (Pagliarani), chi reagisce e viene sbeffeggiato (Bellezza), chi s’incazza e rinuncia a parlare (Maraini), chi sonnecchia pacifico (Zeichen), chi medita torvo (Sebastiano Vassalli). Victor Cavallo fa il presentatore e cerca di mediare una bolgia di gente che straparla e gesticola furiosa, coi beat americani (Corso, Ginsberg e Burroughs) a fare da star. A un certo punto una ragazzina minuta e schizoide sale sul palco e prende in ostaggio il microfono, lanciandosi in un monologo deragliato. In quell’informe subbuglio durato tre giorni i poeti vengono sbranati e la poesia cessa la sua funzione maieutica per scivolare nell’insignificanza e nella marginalità. Sul palco, nella serata conclusiva, salgono i beat, con Ginsberg a intonare un mantra per placare i furori di un pubblico che non ha più voglia di ascoltare, che non vuole starsene passivo e orizzontale. Poi, sotto il peso di quel pubblico che è diventato poeta, il palco cede, in un crollo che si trascina con sé tutto ciò che è rimasto degli anni ’70, la poesia, la letteratura, le brigate rosse, le urla, i sogni, gli incubi, le bombe, gli scontri, i flauti, le bancarelle, gli autoblindo nel centro di Bologna, l’uccisione di Moro, Guattari e soci. La tensione lascia il posto a una stanchezza infinita. L’ubriacatura terroristica, gli incubi totalitari dei tentati Golpe, le utopie lasciano spazio a un annichilimento che consisterà nell’abbandono dell’impegno politico e sociale e a un ritorno alla sfera del privato”.
Per Mazzoni Castelporziano insegna come la poesia ormai non sia più fatta soltanto di parole ma anche dai corpi e dagli spazi in cui questi corpi interagiscono. La rivendicazione del palco da parte di un pubblico disubbidiente (le grida, gli insulti, i battibecchi) segna la fine di una separazione tra palco e pubblico, tra poeti e chi li ascolta. I poeti di Castelporziano vengono metaforicamente denudati, sbranati, esposti a una crisi dei ruoli. Uno sgretolamento sociale della figura del poeta che da allora non sarà più la stessa, non avrà più il medesimo peso all’interno della società. A Castelporziano tutti vogliono salire sul palco, afferrare il microfono, lanciarsi in monologhi deliranti o recitare dei versi che fanno il verso a quello dei poeti deputati. Quel che conta non è più la tecnica, la metrica, ma l’idea, l’affermazione di un’opera totale in divenire, una rottura dei canoni, un andare oltre. Un altro studioso attento di poesia è Paolo Giovannetti (La poesia italiana degli anni Duemila, Carocci 2017). Anche lui sottolinea il fatto di quanto sia difficile definire in modo unitario cos’è divenuta oggi la scrittura che va a capo. Tuttavia il suo breve manualetto prova a fornire alcuni esempi di cos’è diventata. Una sopravvivenza di forme liriche, sperimentali, di performance, di poesia in prosa, o ibridata con la saggistica, fino all’intreccio con il digitale, alla proliferazione incontrollata sui blog, in una mutazione di forme ancora in evoluzione.
Torniamo ai tre poeti del titolo. Come dicevo, li ho scelti tra le mie letture personali, in modo soggettivo. Non mi importa se sono considerati bravi o meno. Ne parlo semplicemente perché, tra le molte letture, i loro libri hanno continuato a sopravvivere nella mia testa e mi paiono indicativi di certe tendenze. Sono libri scritti in questi ultimi vent’anni. Il primo, in ordine di tempo, è un libro di Giulio Mozzi. Sullo scrittore padovano ho espresso giudizi poco lusinghieri. Qui ne parlo come autore de Il culto dei morti nell’Italia contemporanea, edito nel maggio del duemila da Einaudi. Il culto dei morti nell’Italia contemporanea è una mescolanza originale di saggio antropologico e orazione sull’Italia di fine millennio, dove si spazia dalle notizie sulla morte di Moana Pozzi, l’infarto che colpisce a morte il poeta Antonio Porta dietro le quinte del Maurizio Costanzo Show, accenni alla cronaca nera dell’epoca (i sassi dai cavalcavia), alla morte misteriosa del saggista inglese Malcom Skey, la guerra nei Balcani, squarci autobiografici, episodi minuti di vita quotidiana, musica ascoltata, frammenti di un quotidiano televisivo. Mozzi scrive con stili e modi differenti, restituendo (almeno per me, allora lettore sospettoso di una poesia che avevo annusato di malavoglia soltanto a scuola, associandola a una forma scolastica e vetusta che ti facevano soltanto imparare a memoria e in cui non ti riflettevi più) un flusso verbale diseguale in cui, a tratti, riconosco volti, forme, discorsi di un quotidiano che sentivo prossimo al mio vissuto. L’oratoria è talvolta alta, altre triviale, bassa, bassissima, ma ogni pezzo che compone il libro (breve, sono soltanto un’ottantina di pagine scarse) va a comporre un mosaico unitario, un ritratto intimo e collettivo di un paese che arriva quasi sotto forma di una tragica parodia alla fine del millennio. Riprendendo brani propri o di altri, la voce poetica di Mozzi è scorrevole e comprensibile, alterna ironia a tragedia in una mescolanza di forme che è già una sintesi perfetta di tutta la scrittura in versi che verrà. Erano, quei primi duemila, anni di svecchiamento repentino delle forme poetiche.
Ricordo un’antologia altrettanto dirompente sempre per Einaudi con versi di Nove, Montanari, Scarpa, una collana editoriale per Bompiani curata dalla Sgarbi e da Nove con allegati dei deliziosi cd musicali in cui i poeti leggevano i loro versi con degli accompagnamenti musicali. Erano già i segnali di una mutazione della scrittura in versi che si riallacciava alle esperienze degli anni ‘60, per andare oltre i margini della pagina e aprirsi a un pubblico di lettori che probabilmente non era particolarmente attratto dal genere. Mozzi si collocava su quelle traiettorie, traendo non pochi spunti da una forma di scrittura senza regole fisse, verso liberissimo e prosastico, a tratti diaristico che richiamava molto il modo di versificare di uno scrittore allora abbastanza conosciuto come Giuseppe Caliceti. Ecco un estratto dal culto (qui ad esempio sembra che Mozzi abbia versificato un trafiletto di cronaca da qualche quotidiano):
“è il pomeriggio del quattro
Novembre.
Tra le due e le cinque.
E.G., ventidue
anni, i carabinieri la
trovano con la gola tagliata
di fronte al capannone in cui si appartava con i suoi clienti
(Roma, Zona IV Miglio).
Ammazzata come un cane.
È ancora in una cella
Frigorifera dell’obitorio. Se esiste, la
Famiglia è all’oscuro di tutto.
È come se E.G.
E le sue compagne non fossero mai
esistite. E così sia.”
La scrittura di Mozzi è spesso neutra e oggettivante, fluttua libera per accrescimenti graduali cercando di riprodurre le frammentazioni del pensiero, del mondo degli oggetti, in una personale archiviazione di ricordi e fatti significativi (o meno) filtrati in modo dispersivo da un io debole:
“io malcom l’ho conosciuto poco
due o tre volte in casa editrice, una volta al salone del libro
mi sembrò un po' picchiatello, con gli occhiali”
Qual è l’intenzione dell’autore? Ci può aiutare la bandella del libro: “Il culto dei morti è una sorta d’indagine a campione – a tratti comica a tratti atroce, con ben poche aperture liriche – tra tutto ciò che si fa o si dice o si commercia, oggi, in Italia, a proposito della morte, dei morti, del morire e dell’aldilà”.
Come venne ricevuta dai lettori? Questo non saprei dirlo. Posso dire come la ricevetti io. All’epoca mi parve l’unico libro possibile che potesse avvicinarmi a un genere che relegavo nei ricordi (negativi) della scuola. Non mi interessava il patriottismo, le menate dell’io, la poesia d’amore o i tecnicismi trecenteschi. Volevo qualcosa che portasse dentro di sé i segni del mio presente, che sapesse dialogare con le immagini, coi generi, con la violenza o la noia della mia provincia profonda. Il libro di Mozzi (insieme ad altri svecchiamenti editoriali di quegli ultimi pezzettini degli anni ’90) andava a suo modo in quella direzione. Fu il primo passo affinché iniziassi a guardare con occhio diverso alla poesia, a qualcosa che avrei potuto scrivere anch’io, imitare senza il frapporsi di metriche o regole, un po’ come il pubblico freak di Castelporziano che saliva sul palco, strappava il microfono e ci rovesciava dentro i propri flussi mentali. Come i microfoni aperti durante i tredici mesi dadaisti di Radio Alice.
Stacco. Tommaso Ottonieri è figlio di quelle neoavanguardie degli anni ’60. Lontano galassie da uno come Mozzi, Ottonieri è stato molte cose: scrittore, saggista, soprattutto poeta. Scoperto da Sanguineti, dal 1980 ha scritto libri difficilissimi e marginali. Nel risvolto di copertina del suo ultimo libro di prose poetiche (Cinema sortilegi, La Vita Felice 2023), Virgilio Frungillo ne sintetizza con poche parole la figura: “Ottonieri è sicuramente il poeta che più di tutti riesce a dare forma linguistica alla condizione postrema di un soggetto immerso nella stratificazione dei segni e dei materiali, a scovare e muovere il sortilegio che si annida nel linguaggio”. Ecco, la stratificazione dei segni e dei materiali. Di Ottonieri mi colpì molto una raccolta ragionata del suo lavoro poetico: Contatto, uscito per Cronopio nel 2002, riunisce testi che oscillano dal ’79 al 2002.
Il canzoniere di Ottonieri è un magma di prose narrative, versi infittiti di merci e materia, una lacerazione che coinvolge soprattutto il linguaggio, spesso ridotto a frammenti che galleggiano e si scontrano sulla pagina, un volteggiare disgregato di parole borbottate da qualche altrove pre-digitale iper-accelerato. Ottonieri gioca con la plasticità della lingua, con le sue forme, la sua tradizione, mescola stili e tematiche, prose poetiche, forme liriche disossate, poesie canzone remixate sotto i ritmi mentali di una dance tecno. In quegli anni, i primi duemila, vivevo gli ultimi anni della mia giovinezza, subivo ancora il fascino di certe narrazioni deragliate, le distopie di Burroughs, Ballard, Dick. Nelle pagine bianche di Ottonieri sentivo un riverbero che dalla tradizione letteraria arrivava fino al linguaggio del cinema, del fumetto, della narrativa noir. Mi piaceva l’orfismo spiccato della sua scrittura, i conglomerati fittissimi della pagina, quasi un muro di parole impenetrabili che mi ponevano davanti all’idea che la scrittura non fosse solo un facile riconoscimento. Tra intermittenze elettroniche, citazioni beat, riscritture di canzoni, i testi in versi di Ottonieri planavano da un altrove marziano fatto di insonnie, abbuffate elettroniche e una materia solida e figurale di cui non comprendevo mai il senso:
“il neon allùcina uno spettro di volto”
“Opale la’lbume colato, la guarnizione si scolla”
“già pronto a divorare, il frigo spalancato sul tuo ventre,
(…) dove sbrinare, la mente (…)”
“Qui briciole di vetro torturano l’esofago
Pulviscolo stellato che strofina”
Dentro i testi di Ottonieri la realtà perde di consistenza, si opacizza in interferenze elettroniche, la guerra, le guerre nei Balcani finiscono per trasformarsi in schermate di un videogame da cui non potremo più uscire:
“Benvenuto all’Hotel, al livello finale
Spara quanto ti pare, mai lo potrai lasciare”
In Mignon 2001 ritornano anche i fantasmi del G8 di Genova:
“schioccati i razzi altezza uomo e i vetri
Aculei fruscianti da un infimo di allori,
straziando gli aliti acidi l’azzurro
limoni bucce nell’asfalto fuso: (…)
l’aura non c’è ed ogni alloro è un rogo,
tagliando le correnti lacrimogene
dentro il boato d’autoblindo e arterie”
Rileggendo questi frammenti mi accorgo di come, pur all’interno di testi ostici e spesso di difficile decifrazione, Ottonieri usi sempre molte immagini chiare, parole ad alta visibilità che ricorrono nel suo sistema letterario con una certa frequenza, creando sequenze di immagini verbali e quindi mentali. Anche i testi più sperimentali sembrano dei patchwork di frame montati con sapiente maestria in quello che può apparire un universo caotico. L’insistere nella costruzione di figurazioni verbali permette ai testi di Ottonieri di rompere la linearità del linguaggio (nelle mie citazioni, per semplicità, non ho rispettato con precisione gli a capo e soprattutto la spaziatura tra righe o parole, che nelle forme originali sembrano spesso galleggiare liberamente nel bianco della pagina) e cercare attraverso la percezione visiva e materica una multidirezionalità dello sguardo e della lettura. La qualità delle immagini di Ottonieri sembrano spesso “frizzare”, come attraversate da sporcature, interferenze, distorsioni di un segnale remoto. Contatto è un libro tutto sommato di recupero, con testi vecchi riutilizzati per costruire una antologia quasi canonica, ma di canonico nello scrittore di Avezzano non vi è nulla. Anche il me di quel 2002 percepiva (non ricordo dove ho comprato il libro, ricordo di esserne venuto in possesso dopo un’allucinata lettura della plastica della lingua) in quei flussi di montaggio (quasi un blob ghezziano) la risonanza onnivora della storia recente e dei suoi spettri insepolti.
Altro stacco. Enzo Mansueto. Poeta, saggista, musicista, assai attivo sulla rete, ex punk anni ’80, ecc. Di Mansueto uscì nel 2010 un volumetto intitolato Scassata dentro, sorta di raccolta del meglio della sua poesia. Al libretto era allegato un cd con le sonorizzazioni dei testi ad opera del gruppo La Zona braille di cui lo stesso autore è uno dei componenti. Mansueto proponeva una poesia che andava nella direzione dell’opera totale: performance, musica, lettura, testo. Mansueto condivide con Ottonieri certe tematiche e ossessioni (feticismi catodici, mercificazione del vissuto), senza spingersi verso la plastificazione della lingua dell’altro. Mansueto incanala molteplici suggestioni: gli anni ’80, il punk, le distopie di Burroughs, Ballard, il punk barese, milanese, la scena del Virus, il postpunk, la fantascienza inglese di fine anni ’70.
I testi di Mansueto sono ferite slabbrate abitate da corpi svuotati dalla fatica, dalla noia, dal sonno elettrico dei televisori/schermi onnipresenti, una prefigurazione del dondolare ipnotico e dell’iper-digitalizzazione in cui viviamo. Squarci di nuova lirica breve e tagliente come un rasoio, descrizioni di sogni ad occhi aperti, stanze anonime, stati interni di un io alienato, periferie fosche popolate da scarni passanti furiosamente anonimi e ancora tracce allucinate di schermi accesi, farmaci, echi di guerre e terrorismo. I testi di Mansueto appaiono come algidi bagliori di un mondo vissuto su un divano occidentale (sorta di capsula spaziale di qualche sci-fi minimalista) da cui non ci si riesce più ad alzare, avvolti da un’apatia e una passività che ha cancellato qualunque rivolta o ribellione. Resta un corpo annegato dai farmaci, scassato dentro appunto, rotto, affamato, vuoto, spiato dagli occhi retinici di telecamere clandestine disseminate lungo gli infiniti snodi di qualche tangenziale fantasma. La poesia di Mansueto, come quella di Mozzi e Ottonieri, rimastica, preleva, riscrive, attinge all’immaginario scomposto del presente, spingendosi con originalità lungo i sentieri di una fantascienza riflessiva (cosa non del tutto nuova, visti certi esperimenti dello stesso Nanni Balestrini negli anni ’60) che è già la mutazione di Cronenberg:
“The Bug
Cosa ci fa l’insetto a un certo punto
Sulla pellicola che rifotografa
L’esperimento Quatermass?
Il corpo alieno è lì? È quello il punto
Che inchiavarda la cava allegoria?
(Lo sguardo spettatore fa il pantografo,
ingrandisce la mosca in ombre inquiete).
Contaminata in sporca percezione,
teleregistrazione entomoria, veduto visto, muta mosca: azione.”
Tirando le somme potremmo dire che i tre poeti qui presentati (con estratti minimi quasi presi a caso) probabilmente appariranno alquanto lontani da un’idea di poesia scolastica. Cos’hanno in comune? Tutti e tre, ognuno secondo la propria specificità di scrittura e gusti, mostra quanto la scrittura che chiamiamo poesia sia cambiata. Il medium poesia, oggi ancor più rispetto ai libri di Mozzi, Ottonieri e Mansueto, convive e trae nuova linfa dall’ambiente digitale. La poesia ha smesso da tempo di essere quello che era ai tempi di poeti come Carducci o Foscolo. Da Baudelaire e Rimbaud la parola si è fatta elettrica, il verso ha cominciato ad assorbire i flussi della metropoli e del disfacimento dell’io lirico tradizionale. Dalle prime avanguardie a quelle del secondo dopoguerra (in un discorso che attraversa anche la musica e la pittura, basti pensare a figure come John Cage e Francis Bacon) la scrittura assorbe gli stimoli visivi del cinema, restituendo importanza a un nervo ottico che registra a ritmo incessante i flussi di immagini che lo circondano. Nonostante le voci critiche di cui si accennava all’inizio, la poesia, dalla fine degli anni ’90, ha tratto dalla rete, dai blog, dai social, dalla musica rap, dai poetry slam una nuova linfa spesso snobbata dai puristi che vogliono ancora che la lirica abbia puramente una funzione estetica; qui siamo vicini a una poesia pop che guarda, più che alle influenze auliche classiche, alla cultura di massa1.
Facebook e Instagram diffondono produzioni poetiche multimediali che giocano col disegno, l’audio, la fotografia. Interessante il punto di vista di uno studioso come Alberto Casadei che propone una interpretazione psicanalitica della poesia, come manifestazione di movimenti inconsci. Casadei sposta il discorso verso le neuroscienze, col fare poetico come lavoro “biologico” pre-razionale, emotivo, cognitivo, che non segue percorsi logico/razionali, ma attinge da elementi esperienziali profondi, lontani dai neo-manierismi delle forme classiche e tradizionali. Interessante la ricognizione fatta da una studiosa (e poetessa, di chiara collocazione sperimentale, con riguardo particolare per Edoardo Sanguineti) come Gilda Policastro, volta a ricostruire un nuovo canone capace di raffigurare un genere così mutevole. Certo la poesia non è più quella di due millenni fa (meno male!), certo Castelporziano, nel suo delirio di massa, ha segnato una cesura tra un prima e un dopo, ma ha anche sdoganato una performance poetica che da allora sarebbe dilagata, reimpostando il rapporto tra pubblico e poeta, non più corpo estraneo, impalpabile, intoccabile.
Castelporziano, nella lettura penetrante della Policastro, ha riempito e alimentato un immaginario performativo lontanissimo dalla palude del classicismo nostalgico; negli anni novanta ci sarebbero stati i poetry slam, importanti rassegne ed eventi (come Romapoesia, Pordenonelegge, Parma Poesia Festival), contesti performativi che avrebbero visto nuovamente una mescolanza di poesia sonora, verbovisiva, proiezioni, videoarte, in uno sconfinamento amplificato dallo spazio digitale e dalle sue possibilità, sorta di nuova declinazione tra match e noise della teatralizzazione selvaggia andata in scena sulla spiaggia di Ostia. A dispetto dei pessimisti e di chi vede la poesia finita dalla metà degli anni ’70 (Berardinelli & Cordelli), la scrittura dell’andare a capo (quando ancora a capo ci si va, penso alle prose in versi degli anni dieci) ha conosciuto nuovi e originali interpreti, alcuni maggiormente legati alle radici sperimentali degli anni ’60, altri meno. Basta aver voglia di cercarli, di leggerli. Nella poesia contemporanea non ci sono strade sicure, ci si perde spesso. Si deve viaggiare muniti di curiosità e apertura.
Sara Ventroni, Lidia Riviello, Elisa Biagini, Alessandra Carnaroli, Jonida Prifti per fare alcuni nomi. Soprattutto si deve abbandonare la certezza di riconoscere facilmente le nuove forme a cui i versi si sottopongono, penso soprattutto al lavoro di uno come Gherardo Bortolotti (Low una trilogia, Tic edizioni 2020) che numera brevi stringhe narrative in cui è ancora possibile ritrovare un io (per nulla lirico) o abbozzi di personaggi contrassegnati con quelli che sembrano dei nickname immersi in uno spazio malinconico e alienato infittito di telegiornali, guerre catodiche, cartelloni pubblicitari e un continuum di villette a schiera, pizzerie, routine lavorative e sessuali, vite minori apparentemente felici di passare le domeniche pomeriggio negli ipermercati globali o di anestetizzarsi davanti alla serialità infinita della fiction. Bortolotti evoca un paesaggio distopico (su sentieri simili si sono avventurati anche Antonio Porta e appunto Mansueto) che ci è prossimo, in cui tutti consumiamo l’impressione di essere vivi.
- Queste ultime riflessioni mi sono state ispirate dalla lettura di un interessante volume a cura di Donatella Capaldi ed Elisabetta Gola, Nuovi spazi della poesia, Meltemi 2022