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Uberto Paolo Quintavalle: Sodoma, lolite & iperborei (1956 - 1976)

Giovedì, 06 Giugno 2024

Nobile di famiglia, ricchissimo, di gran classe, abile giocatore di tennis, proprietario di una tenuta principesca a Monasterolo, frazione di Vaprio d'Adda, in provincia di Milano. Morto nel 1997 a New York vittima di un infarto, negli anni di tangentopoli cenava a caviale con Francesco Saverio Borrelli. Uberto Paolo Quintavalle ha lavorato in ambito giornalistico per conto del Corriere della Sera e ha scritto parecchi libri, oggi tutti fuori catalogo e dimenticati. Di lui ci si ricorda al massimo la sua partecipazione come attore all’ultimo film di Pasolini. Era uno degli aguzzini di Salò. Il resto è oblio, o quasi. Ho recuperato quattro libri. Il primo romanzo è Segnati a dito del ’56. Prima aveva pubblicato solo un poemetto e delle tragedie.

Segnati a dito è un romanzo sui generis, scomposto e senza una vera trama, affidato a una scrittura un po’ sciatta, dialoghi senza colore, lontani dalla polifonia fascinosa di Arbasino o dal crudo dialettale pasoliniano. Il soggetto di base è tuttavia interessante ed è quello su cui si instraderanno in molti nel corso dei decenni successivi (in letteratura il riferimento è sicuramente Moravia, poi appunto Alberto Arbasino, saltando fino ai recenti Romolo Bugaro e Castellitto jr): un gruppo di ragazzi e ragazze della borghesia romana, i loro vizi, le loro vite apparentemente invidiabili, le serate, le feste, la noia eccetera. Quintavalle osserva una fauna umana confusa e indistinta fatta di giovani sfaticati in attesa di un’eredità o di acchiappare una bella americana di passaggio, o ancora di prestarsi come lacchè al servizio di mummificate marchese romane. L’atmosfera è quella del boom, la stessa immortalata in film come La dolce vita, il Sorpasso, o l’Antonioni della Notte e dell’Eclisse.

I giovani cazzari di Quintavalle non fanno niente, si annoiano e aspettano la sera per scivolare come automi da un cocktail all’altro, piegati da liquori schifosi e buffet malinconici. Bighellonano fuori dai cinema, si intrufolano in locali e feste, mescolandosi alla fauna umana di giornalisti, vecchie ereditiere e personaggi del cinema, in particolare comparse, attrici americane all’ultima spiaggia a braccetto di scrittori con briciole di talento. Intorno a loro il paese è in fermento, un vorticare ininterrotto e laborioso di cui Quintavalle ci mostra quasi nulla, concentrato solo sui suoi oggetti di studio: fanfaroni squattrinati semi sloggiati dalle facoltose famiglie perché rifiutano di finire come i genitori, ignorano le logiche del lavoro, non si sentono più di dover ricostruire alcunché (a quello ci hanno già pensato i loro padri, sfruttando come bestie operai e contadini); i lazzaroni di Quintavalle campano alla giornata, disprezzano chi lavora, chi si seppellisce in una fabbrica, in un ufficio per 10 ore al giorno; loro preferiscono fare a tempo perso le comparse a Cinecittà, solo per acchiappare qualche bella straniera e mangiare a sbafo; la sera bivaccano da un locale all’altro (nomi esotici e vagamente misteriosi come il Doney, l’Excelsior, il Jicky), concupiscono principesse ammuffite di una vecchia e sbiadita aristocrazia romana (buona solo per allestire barocchi rinfreschi dentro qualche castello gotico), oppure impalmano veneri dei Parioli, indossatrici all’apice dell’avvenenza. Tra avventure galanti di una sera, aborti clandestini e tresche con vecchie danarose, i libertini romani coltivano una noia letteraria e un nichilismo dietro a cui si nasconde (come sempre in questo tipo di romanzo mainstream) un’euforia passeggera, un sentirsi trascinati verso gli anni che passano senza far niente; la giovinezza sfuma quasi subito, lasciando presagire che presto tutto finirà, in un incidente, nella follia delle droghe, o semplicemente nell’obbedienza a qualche padrone, perché presto tutti loro saranno morti, cancellati e annullati dal trascorrere impietoso del tempo.

I giovani di Quintavalle sono presi dalla smania di accumulare scopate, liquori, denari da spendere inutilmente, in un vortice vitalistico che ha come destinazione l’abisso. “E come è lontana la vita, mi sento libero, slegato da tutto, già proiettato a duecento all’ora nell’aldilà, come sarebbe bello morire adesso, come sarebbe bello morire (…) la morte è qualcosa solo quando si è fermi”. I segnali ci sono già tutti. Oltre ai tavolini di via Veneto ingombri di cinematografari e turisti, oltre al frettoloso passare di un crogiolante purgatorio di insonni lanciati dentro all’impenetrabile cortina della notte, oltre ai lumi delle lampadine stradali, ecco apparire come un presagio funesto un incidente con macchina sfasciata e dentro due coperti di sangue che sembrano dei fantocci a cui presto tutti assomiglieranno. Segnati a dito è un affastellarsi di volti, voci, dialoghi, destrutturati da una trama precisa, un ammasso di non avvenimenti, di non traiettorie di vitelloni banali e grotteschi. Nel finale, uno di loro, infatuato all’idea di una bella morte da infliggere a qualcuno, si aggira nel buio con un’arma e ragiona su cadaveri sfigurati ripescati nel Tevere e su delitti impuniti, pregustando quanto sarebbe bello uccidere qualcuno1.

Capitale mancata esce per Feltrinelli (collana I Contemporanei diretta da Giorgio Bassani) nell’aprile del ’59 e segna un passo avanti nella poetica dell’autore. Da Roma ci spostiamo a Milano, nell’inverno milanese, tra palazzi e locali alla moda; una girandola di personaggi senza importanza (Quintavalle cambia e mescola più volte i punti di vista della narrazione): giovani ragazze che vogliono entrare nei giri che contano e sono disposte a tutto, a prostituirsi, fare da escort con figli di industriali o vecchi bamba danarosi. Una gioventù scapigliata (cavallone tutte curve e parecchie ambizioni) che sognano gite in motoscafo sul lago di Como, cene a Villa d’Este, giornate nelle piscine private di una Milano che ricomincia a vivere in grande stile e si è lasciata definitivamente alle spalle le miserie della guerra. L’economia è nella golden age e a Milano tutto è una luccicanza di persone, facce, movimenti, soldi, palazzi. I figli della borghesia industriale e bancaria sono degli sfaccendati, degli inetti buoni solo a dilapidare i soldi paterni, fingere di lavorare in azienda o coltivare sogni rivoluzionari e bandiere rosse per prosciugare le generazioni precedenti e i loro capitali accumulati. Pur lontano dalla polifonia di Arbasino, Quintavalle costruisce per frammenti scomposti un ritratto satirico di un’Italia già fasulla e feroce che tra night club e la Borsa sciama ubriaca fradicia verso il nulla e crepa d’invidia per i grandi irraggiungibili nomi dell’industria milanese, i Falck, i Pirelli, i Marinotti, i Pesenti, i Rizzoli, di cui può solo aspirare a ritagliarsi un vicino angolino in quell’oltretomba meneghino e marmoreo del Monumentale. Non mancano carovane di auto, Ferrari o Mercedes, ville in Brianza, pellicce pregiate, yacht a Portofino o capodanni a Saint Moritz, giocate folli al Casinò, tanta noia e sesso a pagamento sullo sfondo di una città nebbiosa e gotica, cattedrale di ombre spettrali e impenetrabili in cui trovano ancora spazio fiere di beneficenza per poliomielitici e anziane Marchese mummificate a salmodiare il Corriere nelle cappelle di campagna.

Uberto Paolo Quintavalle è bravo nel costruire per accumulo un mondo lombardo civettuolo e dorato che vive in un eterno presente da cui non dovrà mai svegliarsi. In controluce si intravede appena un mondo altro, una città cosmopolita sul punto di smaterializzarsi: non più industriali, commercianti, speculatori, ma già un’epoca nuova fatta di Borsa, indici, numeri ed evanescenza del potere economico. Tutti compromessi esce dai torchi della Feltrinelli editore nel luglio del 1961, la seconda edizione cartonata (quella che ho io) esce nel settembre dello stesso anno. 1961: anni di boom economico, premi letterari e tv in b/n. Alcuni stralci storici: Stati uniti e Cuba ai ferri corti interrompono le relazioni diplomatiche; l’ex primo ministro congolese Patrice Lumumba viene torturato e ucciso dal leader secessionista del Katanga Moise Ciombe; al congresso del Psi la linea autonomista di Pietro Nenni prospetta l’ingresso nel governo; a luglio, mentre il romanzo di Quintavalle arriva fresco nelle librerie, a Ketchum, Hemingway si fa saltare le cervella; a settembre, la Democrazia Cristian riunita a San Pellegrino pone le basi ideologiche per la collaborazione coi socialisti di Nenni. Attorno il vorticare motorizzato di un mondo urbano, la Montecatini, l’Anic, la Sarom, la Borletti, la Piaggio, la Candy, la Ignis, e ancora un tessuto di piccole aziende, flessibilità, paternalismo e basso costo del lavoro. E sullo sfondo lei, la fabbrica, mostro ansimante di rumore e indifferenza.

In questo ‘61 Quintavalle si confronta per la prima volta con un materiale romanzesco più canonico, ma lo fa alla sua maniera. Il modello potrebbe essere Nabokov con la sua lolita e l’Humbert Humbert. Tutti compromessi, collana I Contemporanei diretta da Giorgio Bassani. Scrittura secca e agra, senza infingimenti intellettualoidi e perdite di tempo. Le pagine procedono spedite verso non si sa che cosa. Il sottofondo potrebbe essere qualcosa di travolgente alla Armando Trovajoli, o i Mac 4, insomma una musica da commedia all’italiana del tempo, già pronta per essere affidata a qualche mostro della commedia del periodo. La letteratura italiana dei primi anni ’60 è quella dei vari Calvino, Buzzati, Levi, Moravia, Vittorini, Morante, Bassani, Berto, Soldati, Mastronardi, Sciascia, Pasolini, poi seguiranno le sirene delle neo-avanguardie, l’arrivo dei rampanti Arbasino, Sanguineti, Eco, Balestrini, Manganelli. In poesia si vive una stagione straordinaria con Bertolucci, Caproni, Sereni. Luzi, Zanzotto, Raboni, Montale. Nomi, stili, generi. Il cinema italiano e la nostra letteratura sono nella loro età dell’oro. In questo bailamme è normale che qualcuno si perda. Quintavalle oggi non se lo copre più nessuno e non saprei nemmeno se lo facevano all’epoca, tuttavia questo romanzo del ’61 ha parecchie frecce nel suo arco.

La trama (un facoltoso 45enne che si invaghisce di una lolita che pare uscita da qualche film pedofilo di Lattuada con Catherine Spaak) si presta a un romanzo veloce e divertente, non privo di paranoia e disperazione di fondo. Faffo (Alfonso, ma il nomignolo ridicolo inchioda il nostro alla sua infantile volubilità) Andegari (il protagonista) è sposato con Clara, vive alle spalle del fratello maggiore (Alberto, uno tutto dedito, dopo la morte per suicidio della moglie, ad amministrare la Andegari S.A.) e ha tutto il tempo per scorrazzare con la sua Ferrari (uno status che lo eleva dall’anonimato e a cui affida quasi tutte le sue velleità di seduttore) da Milano alla riviera, in un su e giù senza capo né coda che inanella località da bauscia in esodo serrato: Santa Margherita, Portofino, Camogli, barche, barchette, vele, aperitivi e vacanze con amici ancora più facoltosi, esempio i banchieri Dal Porto, la cui figlia, Giuggi (altro esemplare inchiodato al nomignolo demenziale e vacuo), diviene, dopo gioco di sguardi, l’oggetto ossessivo del nostro Faffo. La bambina si presenta con costumino provocante, seno già troppo grosso e turgido, gambe, braccia magre nel pieno dell’adolescenza selvaggia di quei ’60; il mondo è dei giovani, delle loro mode importate, della loro musica, delle motorette, i balli, le prime discoteche, i giradischi. Faffo è già un moribondo playboy che arranca dietro alla sbarbina viziata e scafatissima. Tempo zero e Faffo si fa ipnotizzare dalle moine della Giuggi: li ritroviamo (dopo qualche menata, gags per avere il numero, telefonate, eccetera) in discoteca, dove il nostro finge una gioventù che non ha più (i 45enni dell’epoca potevano essere percepiti come i 70enni di oggi) e lei abbarbicata al corpo con pancetta del viziato ex rampollo milanese con ferrarino. Subito dopo finiscono in un appartamentino di lui, scannatoio approntato per chissà quale favola amorosa; e qui Quintavalle si fa affilato come un bisturi e la Giuggi, tra giradischi e musiche alcoliche, carica l’attempato e poi si nega con sapienti giochetti psicologici che smantellano un pezzetto alla volta il povero Faffo. Lui, ormai all’amo, aspetta le telefonate della bizzosa giovinetta, che negli incontri nell’appartamento (a parte ascoltare dischi, farsi massaggiare i piedi e strofinarsi nuda sotto le coperte, smolla poco altro) lascia montare i desideri strozzati dell’uomo maturo.

Il romanzo di Quintavalle anticipa nelle tematiche quello di Dino Buzzati, Un amore, che uscirà per Arnoldo Mondadori solo due anni dopo. Buzzati, da moralista qual è, finisce subito nella tragedia psicologica e nelle menate del suo alter ego, Quintavalle invece ha una faccia volpina e mano leggera e feroce da vignettista senza peli sulla lingua. Il dramma di Faffo rimane sempre un passo prima del melodramma, con lo scrittore a sottolineare gli aspetti grotteschi della relazione. In un momento di depressione, infatti, Faffo si lascia convincere da un amico maturo a un incontro con altre due ex-mannequin di mezza età, in una serata di chiacchiere e balli al suono di ben altri giradischi; nel mentre il nostro personaggio cerca di convincersi del fascino invitante e rassicurante di un corpo femminile esperto e reso rigoglioso dal suo stesso sfaldarsi. Ma l’ossessione per la Giuggi è più forte di tutto. Faffo mente con la moglie, cerca di levarsi dalla testa la piccina inseguendo un’abbozzata vacanza in Grecia sulle orme degli antichi Dei, poi riprende il vorticare di su e giù per un pezzetto di Italia che è quella immortalata nel Sorpasso di Risi, con macchine lente, autotreni e code interminabili di piccole cilindrate che ostruiscono le carreggiate e tentano di sorpassarsi a vicenda. Faffo trova quiete solo sotto le coperte (senza riuscire a far nulla) con la sua Giuggi, costretto ad ascoltare le perentorie farneticazioni della giovane narcisista (“Io ti voglio solo qui, io non ti voglio da nessun’altra parte, in nessun altro modo. Tu sei il mio uomo del peccato, e basta, e la mia vita non ti deve riguardare. Ti chiedo mai niente io della tua Clara o delle tue amanti?”). Arrivano le vacanze invernali a Saint Moritz, la prima della Scala, ed è già estate. “Ti telefonerò io come al solito. Lascia fare a me”. Portofino, Zoagli altre feste, ville, ogni scusa è buona per scodazzare dietro alla famiglia della Giuggi, farsi trovare da quelle parti, elemosinare inviti e cha-cha-cha. Da qualche parte a Portofino incappano persino in una processione con crocifissi pesanti e musiche religiose che si impastano con le risate grasse che escono dai caffè sulla piazza.

Uberto Paolo Quintavalle è implacabile come il Vitaliano Brancati migliore, solo che l’oggetto della sua curiosità è questa fauna umana di arricchiti, banchieri, dirigenti sempre pronti ad impartire ordini ai loro sottoposti e poi indaffarati a fuggire nelle loro ville al mare o in montagna, circondati dalle variopinte comodità di un paese che comincia ad apparire modernissimo e scintillante (almeno per alcuni) e di cui, senza imbarazzi, se ne sentono i legittimi beneficiari. Impagabile la lunga parte in cui Faffo e la moglie Clara Cavenaghi vanno al monumentale e tra i meandri di mostruose sculture, davanti alle tombe dei rispettivi padri, rimembrano separatamente gli eventi che li hanno portati ad incontrarsi e sposarsi quasi per caso, senza trasporto o convinzioni particolari. Clara rimembra oscure pulsioni omosessuali, il lavoro in un giornale di moda e l’infatuazione volubile per il suo direttore, fino a una seduzione che avverrà nella casa di Clara, sotto gli occhi di un cardiopatico e morente signor Cavenaghi. Faffo invece, davanti al loculo del genitore patriarca, ricorda spezzoni di vita, l’incapacità di occuparsi dell’azienda, il lasciar fare al fratello maggiore, figuro ossessionato da immagini votive e vincoli religiosi; sovvengono altre memorie come le scorribande con Mimmo Farfarotti, amico rotto a ogni esperienza che lo trascina da una puttana e subito dopo gli rompe ogni convinzione religiosa pisciando su alcune immagini di santi che Faffo tiene come il fratello religiosamente in tasca.

Il romanzo si avvia alla conclusione con Giuggi sparita, lontana, mandata dalla family di banchieri all’estero, in un collegio pieno di regole e disperazione. Faffo s’industria per raggiungerla e combinare (giochino di tresche ed equivoci coi banchieri Dal Porto) vacanze comuni in quel di Sestriere, Cervinia, Saint Moritz. Dalla sua cameretta da moribondo tappezzata di reliquie religiose (ha avuto un infarto che lo ha paralizzato) il fratello di Faffo, Alberto, intuisce l’infelicità e le ansie del parente e lo ammonisce che alla loro età, altro non resta che prepararsi a lasciare la vita. Il nostro naturalmente non lo ascolta e continua a inseguire l’ombra della Giuggi e della sua comitiva delinquenziale e puttanesca di amici, finendo, dopo un’ennesima festa in cui non c’è nulla da festeggiare, per avere un incidente sulla Ferrari; con la moglie Clara incappa in una malaugurata comitiva di ubriachi con trombette di cartone e cappelli di carta e finisce per rifare le fiancate di due millecento. Alla sfiga non c’è mai fine e il signor banchiere Dal Porto porta la ferale notizia della Giuggi che si vuol maritare e mettere la testa a posto con un signorino cremonese pieno di terre e rendite. I Dal Porto sono galvanizzati all’idea di una bella tresca tra banchieri e latifondisti e al povero Faffo non resta che presenziare al matrimonio della puttanesca ragazzina impalmata da un brufoloso imbecille. Il finale è tutto con la candida bimba che, prima di salire sull’auto, lascia intravedere un’ultima volta le grazie della sottana attillata e sparisce tra sfracassi di portiere e lattine vuote legate al paraurti.

Quintavalle porta a casa 190 pagine fulminanti e divertenti, un ritratto in acido di una nuova e fiammante Italia borghese e pasciuta, indifferente e ignorante, presa da facili guadagni e bisogni infantili di merce e sesso. Meglio del moralista Buzzati o del troppo impegnativo Humbert Humbert. Tutti compromessi ricorda certe scorribande senza capo né coda di Arbasino, solo tagliato e velocizzato, reso quasi una pillola, un confetto di sapiente doratura prosciugato da dialoghi fiume e velleità orali. Quintavalle è graffiante come il cinema di Dino Risi, veloce e motorizzato come quegli anni di giovinezza selvaggia, meschinità, conformismi e tristezze individuali, il tutto osservato da qualcuno che quegli ambienti li conosce, ma non come si può pensare; la sensazione è di un narratore beffardo e impietoso, un nobile di altri tempi che, con calamaio o macchina da scrivere, si diverte dall’alto nel fotografare una folla crapulona e modaiola di arricchiti senza gusto e decenza, una nuova Italia a cui guardare con un umorismo al vetriolo e senza alcun filtro retorico.

L’ultimo libro di Quintavalle di cui voglio parlare è Giornate di Sodoma, un SugarCo del gennaio 1976. Praticamente un istant-book scritto a caldo dopo la tragica scomparsa di Pasolini. Per anni questo libretto gustoso di Quintavalle è stata l’unica testimonianza attorno al Salò del regista bolognese. Leggendo le note relative alla pellicola contenute nel Meridiano sul cinema di Pasolini, si apprende che già nel ’72, sull’onda del successo del filone “decameronico”, Enrico Lucherini propone a Cesare Lanza della Euro Film di ricavare un film erotico da qualcosa di De Sade; Pupi Avati (con altri due sceneggiatori) viene incaricato di buttare già qualcosa e si decide di partire proprio dalle Centoventi giornate. Ne esce un testo alquanto scabroso, inadatto per il regista Vittorio De Sisti, inizialmente indicato come realizzatore del progetto. Avati allora propone il trattamento a Sergio Citti, passando per Pasolini. Pasolini legge la sceneggiatura e non ne rimane colpito, tuttavia l’idea di trasporre De Sade lo incuriosisce; nell’abitazione dello scrittore regista cominciano allora degli incontri (tra la fine del ’73 e i primi mesi del ’74) con Avati e Citti. Avati è incaricato materialmente di scrivere ogni volta le pagine della nuova sceneggiatura, a Pasolini quello di esaminare, correggere e indicare la direzione da intraprendere. Nel frattempo accadono alcune cose; la Euro Film entra in grave crisi finanziaria ed esce dal progetto, Citti si disinteressa ormai del film e Pasolini si convince a prendere in mano personalmente il tutto. Propone il film a Grimaldi. Il film che ne uscirà mescolerà Blanchot, Barthes, Klossowki al marchese. La pellicola verrà proiettato al Festival di Parigi il 22 novembre del ’75, con Pasolini già cadavere.

Il ’75, per riprendere le parole del poeta Gianni D’Elia, era stato un annus horribilis col massacro del Circeo e il macabro giallo consumato sul corpo del poeta all’Idroscalo di Ostia. Su Salò, negli anni, sono emersi dei documenti eccezionali, foto, dietro le quinte, uno splendido docu a firma di Giuseppe Bertolucci, eccetera. Tuttavia il libro di Quintavalle non ha consumato la sua macabra fascinazione. Giornate di Sodoma è un ritratto dell’ultimo Pasolini fatto da una posizione privilegiata: Quintavalle infatti era stato chiamato ad interpretare Curval, uno dei quattro aguzzini protagonisti della famigerata pellicola. Quintavalle espone con chiarezza i ricordi legati alla lavorazione, suddividendoli in episodi brevi e gustosi, rapidi ritratti da validissimo bozzettista. La penna al vetriolo comincia da subito a demolire un pezzetto alla volta il suo oggetto di studio: fin dalle prime pagine Quintavalle descrive Pasolini come uno con la vocazione al martirio: grane giudiziarie, vilipendio della religione, processi per immoralità. Il Pasolini di Quintavalle è un maniaco dell’ordine e della pulizia, sempre senza un capello fuori posto e lustrato con la vernice. Durante tutta la lavorazione del film si presentava con i pantaloni attillati secondo le mode giovanili dell’epoca, camiciole colorate, qualche volta persino con delle tute. Quintavalle era stato contattato da Nico Naldini nel febbraio del ’75 per conto del cugino regista e subito gli era stata proposta la parte per telefono.

Seguono delle pagine flashback in cui lo scrittore ricorda il primo Pasolini, quello conosciuto negli anni ’50, quando non era ancora famoso. L’immagine è quella di un giovane intellettuale carico di vitalità e ottimismo, uno che viveva con la madre e campava facendo l’insegnante, frequentando tutti i bulletti di periferia, quasi imitandone i toni e la fisicità, ostentando un certo disprezzo per l’intellettualità, circondandosi di personaggi che come lui (il riferimento è al poeta Sandro Penna) non lesinavano nel magnificare le doti di una vita selvaggia e sessualmente disinibita. Fine del flashback. Torniamo alla Roma del ’75, alla lavorazione un po’ misteriosa e segreta di Salò. Pasolini è famoso, appagato, un intellettuale che scrive sui principali quotidiani italiani, è conosciuto in tutto il mondo per il suo cinema, per gli scandali, i processi, i toni apocalittici e sdegnati dei suoi interventi in televisione e contro la mutazione antropologica degli italiani. Quintavalle ne delinea altri bozzetti, meno lontani, meno edulcorati dallo stormo di discepoli che lo seguivano a ogni passo. Intellettualmente dotatissimo, nella sua palazzina romana viveva circondato di libri e scartoffie, tuttavia leggeva solo in italiano ed era limitato da gusti personali che escludevano l’irrazionale, tutto ciò che era insolito, esoterico, arcano (“non ammetteva, ad esempio, un autore come Carlos Castaneda, di cui sapeva vagamente, e anche imprecisamente, che era “un guru dei drogati”; questo bastava perché fosse relegato nel ghetto, dato che lui contro i drogati nutriva la stessa avversione impietosa che si lamentava di subire, lui omosessuale, da parte dei “normali”).

Maciste culturale, il Pasolini di Salò è ormai convinto di un male connaturato nelle giovani generazioni cresciute nel vuoto televisivo della cultura democristiana, interessato a portare avanti la produzione del suo ultimo film in modo assolutamente indipendente, protetto dal successo commerciale delle sue ultime pellicole e dalla carta bianca data dal produttore. Il resto dei depravati sadiani sarà affidato a figure differenti: l’attore teatrale Paolo Bonacelli, un ex seminarista e comparsa di Cinecittà come Aldo Valletti e, in ultimo, Giorgio Cataldi, ex ragazzo di vita amico di Pasolini fin dai tempi di Accattone, carattere violento e infiammabile, assolutamente incapace di recitare e anche solo di pronunciare alcune parole (Klossowski diventa spassosamente “cazzoschi”, come “sodomita” si trasforma in “sordomuto”). Il set, nel ricordo, era alquanto tumultuoso, pieno com’era di ragazzotti senza alcuna esperienza professionale, al contrario di una troupe costituita dal fior fiore di professionisti. Pasolini comunque si muoveva in quel casino senza fare una piega, senza gridare, riuscendo sempre a tenere le redini del tutto. Dotato di una pazienza inesauribile, girava subito le scene senza perdere tempo nel provarle e impiegando il minor numero possibile di parole per spiegare ai dilettanti quel che dovevano fare o improvvisare. Il metodo pasoliniano è quello dei film del passato: scarso uso dei mezzi tecnici, macchina da presa quasi sempre piombata, zero carrelli o altri artifici, attori automi incapaci di mandare a memoria alcuna parola, costretti a muovere le labbra quel tanto che bastava per infilarci dei numeri. Le riprese avvengono per buona parte in due ville del mantovano, una delle quali in uno stato di abbandono pietoso.

Per Quintavalle Pasolini affronta un autore come Sade a lui non congeniale e finisce per perdersi in orge e torture, mangiate di merda succulenta e una montagna di masturbazioni manuali e qualche atto orale. Per alleggerire la cupezza improvvisata del film, nel finale Pasolini aveva pensato a una sorta di sberleffo con grande bandiera rossa con la scritta “Amore” e uno Stalin travestito da figlio dei fiori. Poi l’idea venne scartata a favore di un boogie-woogie che coinvolgeva tutti gli attori e la troupe. Altri ricordi veloci si accumulano pagina dopo pagina: una giornalista francese che viene ad intervistarlo e gli chiede se avrebbe fatto la regia di Emanuelle e lui che ribatte secco: “Non farei mai Emmanuelle perché la fica mi fa schifo!”; lui che si circonda di ragazzotti ruvidi e riccioluti, capaci solo di sbiascicare poche parole in romanesco; una ragazza che sbrocca e ha una crisi isterica e viene portata  via di peso mentre grida e si rifiuta di continuare a girare scene in cui strisciava a quattro zampe e mangiava merda. In tutto questo Pasolini protestava, lamentando le simulazioni nelle scene di sesso, in particolare quelle anali, dispensando consigli su come farsi inculare. La sera, sciogliendo la giornata di lavoro, prima di appartarsi col favorito del momento, il poeta ideologo salutava la sua ciurma di ragazzotti, facendosi promettere che mai più avrebbero ceduto a lusinghe femminili. Impagabile un’altra scena in cui un ragazzo interamente nudo alzava il braccio a pugno chiuso prima di essere fucilato. Il giovinetto rimase nudo per ore, col regista che lo riprendeva in tutti i modi senza curarsi dell’imbarazzo crescente del non attore. “Il povero ragazzo era così imbarazzato e pieno di vergogna che quasi non si reggeva in piedi, e dovette venire imbellettato tanto che si era fatto pallido. Ma Pasolini, intento com’era a zoomargli sui genitali, non si accorgeva del suo disagio, finché Delli Colli impietosito annodò un asciugamano attorno ai fianchi del giovane e disse a Pasolini di riprenderlo dalla vita in su, visto che la professione di fede politica non avveniva fra i coglioni”. Rileggo queste pagine dopo anni e ancora non riesco a trattenere le risa.

Quintavalle scrive questo istant-book come uno dei suoi romanzi: scene brevi, mozziconi narrativi acuminati e cristallini abitati da un unico e straripante personaggio, un curioso ibrido tra un intellettuale raffinato e un bullo di mezza età, ideologo assoluto del coito omosessuale oltre che stacanovista capace di lavorare senza pause, soste, incurante della stanchezza fisica di chi gli stava attorno, perennemente circondato da qualcuno, giornalisti, amici del giro romano, studenti che venivano a cercarlo per potergli strappare qualche intervista o pranzare con lui. Nei rari momenti fuori dal set se ne stava circondato dai suoi moretti, vantandosi con chi lo incontrava delle sue prodezze. Le serate spariva, inghiottito dai suoi giovinetti, in qualche locale, balera, alla ricerca ininterrotta di qualche attività sessuale. Non potevano mancare, la domenica, le partitelle di calcio, con lui ancora a far da regista, a dispensare divise, ruoli, scarpe e palloni, a far da ragazzo tra ragazzi, disinteressato del suo essere un cinquantenne ricco a cui spettava sempre il ruolo di capitano e unico col diritto di segnare goal. Alla fine Quintavalle ci lascia il ritratto di un curioso dandy di borgata, un Pasolini inedito, quasi infantile, narcisista, ipocrita, deluso, schifato di tutto, ma al contempo divertente suo malgrado, energico e vitalistico fino alla macchietta, perennemente in movimento dietro al marasma ideologico che albergava nel suo cervello. Mi verrebbe da dire che la bellezza ultima di questo libretto è proprio nel personaggio macchietta di Pasolini, doppio letterario del regista bolognese, tra i più divertenti nel caravanserraglio umoristico di Quintavalle, non lontano dagli indolenti vitelloni di Segnati a dito, o dal facoltoso pedofilo Faffo. Dopotutto Quintavalle è una sorta di umoristico cantore di una borghesia (non ancora politicizzata, fascista e violenta) imprigionata dentro a privilegi reazionari e una cosciente inutilità.

  1. Leggo Gli iperborei di Pietro Castellitto. Stessa città, stesse tematiche di fondo (trentenni dalla vita dorata) solo sessant’anni dopo. Se il romanzo di Quintavalle ha il merito di fotografare un mondo che verrà immortalato nella Dolce vita felliniana, il romanzo degli Iperborei ha poco da aggiungere. Castellitto è considerato un fenomeno: figlio d’arte, attore stimato, ha diretto due film osannati dalla critica e con questo primo libro ha vinto già un premio letterario. Nei suoi primi trent’anni di vita Pietro ha fatto cose che nemmeno se rinascessi 12 volte; bene, un po’ di invidia potrebbe starci, quindi non lo guasterà se questo anonimo cronista di una provincia profonda (per giunta lontanissima da Roma e dai suoi riti) non lo capirà. Del Castellitto attore e regista non posso dire. Il libro l’ho letto con curiosità; volevo confrontarne la lettura con quella ancora fresca di Quintavalle. Arrivo al punto: l’ho trovato il solito inutile libretto mainstream. Le frasi da editor, col giusto ritmo (nei dietro le quinte si agitano i soliti Franchini e Giulia Ichino - nomi e ruoli che prima o poi andrebbero indagati per capire quanto male abbiano fatto alla letteratura di questi ultimi anni), citazioni colte (Nietzsche col suo Anticristo a dare un certo tenore alla valanga di dialoghi piatti dei giovinastri), scene scollegate montate con un gusto pop (anche nel font di alcuni paragrafi). Forse il meglio (senza troppi maneggi di editing) che Castellitto riesce a propinare è questo: “Raccolte di tendenza, indie pop italiano e trap; Baustelle, Cani, Paradiso, Calcutta, Coez, Gazzelle, Brave, Tedua, Sfera, Lauro, Dgp, 126 e Ghali. La musica scorre. Ballo un po’. Immagino scene di me vittorioso. Ballo un altro po’. La musica scorre: le volte in cu mi sono sentito adatto e le figure di merda che ho fatto… Ti sembro cambiato? Mi guardo allo specchio. Sono cambiato?”. Potrebbe essere uno dei pezzetti “migliori” del libro e forse uno dei più rappresentativi di cos’è oggi la letteratura italiana: scritture frammentarie, ripetizioni, frasi (secche) come fossero dei loop musicali che arrivano a slogarsi in un mantra, nomi riconoscibili che si spiegano da soli a cui legare un sentimento o un’atmosfera che non viene mai descritta in altro modo se non come una lista, un vago senso di esaltazione e subito dopo di smarrimento e confusione che aleggia. Basta questo per descrivere la vita di un gruppo di giovani della Roma bene che passano il tempo in costume da bagno nelle piscine dei loro padri facoltosi, che scribacchiano soggetti per film futuri, fanno provini, bevono sciroppi alla codeina, si annoiano, si rifanno i setti nasali, hanno i soliti camerieri filippini, mangiucchiano infantili cornetti al cacao scongelati, consumano blister di Xanax, sfrecciano con l’auto ascoltando Guccini e rimembrano quando frequentavano esclusive scuole americane nel gran sonno italiano (due parole a cui affidare involuti pensieri critici?). L’unico sonno è quello del lettore e Pietro Castellitto è fortunato ad esser circondato da chi lo inneggia a genio per ogni cosa che fa. Il romanzo non esiste, imprigionato in un presente anestetizzato e sordo (che già dopo il primo Bret Easton Ellis era roba pallosa) sullo sfondo di una Roma sfuocata popolata di vecchi camerati reduci dagli anni ’90 e sirene minacciose di pompieri. Il punto è che stiamo tornando velocemente a una società sempre più diseguale (e illiberale): il divario tra ricchi e poveri è aumentato enormemente. Vecchi e nuovi padroni accumunati dai medesimi intenti di campare bene alla faccia di lavoratori e cittadini senza diritti e pagnotta. Castellitto è uno dei pochi fortunati. Per lui trovare un editore (gli editor migliori ad aggiustare i pensierini che scrive), un pubblico di finti lettori o comunque qualcuno che gli stampi il libro e gli faccia vincere un premio letterario e poi mandare tutto al macero è un gioco da ragazzi. Gli editori non ci sono per chi viene da fuori giro, per tutti i completamente tagliati fuori. Poi se ti stampi un libro col self-publishing è come se fossi un appestato. Ma vi siete mai veramente fermati a leggere i cognomi nei titoli di coda dei film o di quel che vi pare? Tutti figli di. Amici. Parenti. Conoscenti. Familismo. Codardia. Per fortuna che mi occupo di letteratura gotica a cui non frega a nessuno. Ogni tanto, per scherzare, io e il mio amico Daniele diciamo che da morti e sepolti magari un critico imberbe ci verrà a “scoprire” per raggranellare una cattedra universitaria o pubblicare a proprie spese un saggio con la Profondo Rosso.