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Steve Tamburo is (not) dead

Mercoledì, 15 Maggio 2024

Sul Tamburo sfoglio un volume a cura di Michele Mordente, uscito per la benemerita Stampa Alternativa: le sceneggiature originali di Ranxerox ritrovate nell’abitazione dello sceneggiatore romano dopo la sua scomparsa nell’aprile dell’86. Agende, appunti, foto, collage vari. La mente del Tamburo era spumeggiante, sempre alla ricerca di cose nuove. Le sceneggiature, anche senza il supporto dei disegni iperreali di Tanino Liberatore, reggono bene e rendono l’idea di quel che il Tamburo, in quegli scorci di primi ’80, vedeva appena sotto la raggelante patina del riflusso: città rovinate, montagne di immondizia, lamiere, scatoloni, folle a torso nudo e pantaloni da tuta da ginnastica, giganteschi parcheggi, carcasse e barboni e ancora schermi televisivi accesi, coatti sintetici e ragazzine minorenni stese su letti enormi tra disordine allucinante e siringhe. Stampa Alternativa teneva parecchio al Tamburo, anche perché lui aveva esordito praticamente con loro.

Romano, classe ’55, Stefano Tamburini comincia a collaborare sulla rivista romana Combinazioni, poi scrive volantini e disegna copertine per la Stampa Alternativa di Marcello Baraghini Nel maggio del ’77 fonda la rivista underground Cannibale su cui lavoreranno anche Massimo Mattioli, Filippo Scòzzari, Andrea Pazienza e Tanino Liberatore. Napoli Comicon ha dedicato alla rivista una mostra e un libro catalogo nell’aprile/maggio del 2017. In uno degli interventi del catalogo, Sergio Brancato, dopo una breve ed efficace introduzione storica del periodo, argomenta come i comics, intorno al ’77, diventino una delle forme espressive più dirompenti per raccontare quel che stava accadendo nelle strade.

Nel ’77 il fumetto sembra andare incontro a una rifondazione globale che completa la rivoluzione già iniziata da autori come Magnus, Guido Crepax e Hugo Pratt. Il periodo è fertile: da una parte il nuovo fumetto francese, quello di Metal Hurlant, soprattutto il Moebius del Garage Ermetico, dall’altra le influenze dell’underground americano di Robert Crumb e Art Spiegelman, per non parlare della palestra di Linus e Alter Alter, vetrine prestigiose del fumetto internazionale a cura di uno come Oreste del Buono. Cannibale plana (in poche) edicole e si distacca da tutto quello che c’è: la sterile serialità Bonelli, Linus, romanzetti neri, gialli, gotici da edicola, L’Intrepido, LancioStory, Skorpio, i pornofumetti di Renzo Barbieri e Giorgio Cavedon, oltre a pile di riviste per adulti dei vari specialisti Balsamo, Tattilo, Cardella.

E non ci sono solo le edicole stracolme: il periodo è quello della stampa controculturale, le radio libere, le teorie dei nuovi filosofi francesi del momento Gilles Deleuze e Felix Guattari.  Il primo RanK Xerox (scritto proprio così, poi cambierà grafia per via della querela avanzata dall’omonima casa di fotocopiatrici) nasce sulle pagine di Cannibale nel giugno del ’78 e prosegue fino alla chiusura della rivista per poi riapparire su Il Male nel gennaio dell’80. Sempre Stampa Alternativa (con la cura di Michele Mordente) nel 1999, nella collana Eretica, pubblicò tutte le prime storie del coatto sintetico, allora ancora disegnato dallo stesso Tamburini e da Pazienza e Liberatore.

Il primo Rank è assai diverso da quello colorato ed esasperato di Frigidaire. Bianco e nero, disegno tirato via, segno molto più underground, testi dissacranti e ironici che frullano tutto, l’underground americano, il nuovo fumetto francese, la fantascienza, il rock demenziale del periodo (Skiantos, GazNevada, Sorella Maldestra), la pornografia (da subito esasperata e pedofila - Lubna, la fidanzata del robot spaccatutto, è visibilmente una minorenne eroinomane ed infoiata), oltre ad evidenti richiami al contesto politico del movimento del ’77, gli scontri di piazza, gli studenti sovversivi, le repressioni poliziesche, una fauna umana esasperata e demente che attinge ai mattinali del periodo (bande criminali vecchie e nuove, Vallanzasca, Nar, Br, Prima Linea) e prefigura un universo umano in cui il disinteresse e il cinismo hanno avuto già la meglio su qualunque interesse collettivo e utopia egualitaria. La folla lercia di quelle tavole in bianco e nero è un rigurgito polveroso di ultimi beatnik, hippies impazziti, covoni degradati di una gioventù già sconfitta e disgregata dalla malattia mentale e dalle droghe pesanti.

Nelle tavole affollate e brulicanti di quel primo Rank sembra quasi di leggervi la premonizione chiara e precisa di un fallimento generale, di un’angoscia (ancora molto stemperata dall’irriverenza demenziale dei testi) e di un vuoto collettivo che troverà nel No future punk il suo compimento. Tamburini macina idee e le spreca in poche tavole febbricitanti (cosa che ammetterà lui stesso in un delizioso Millelire del ’97 ancora a cura di Michele Mordete e Giuseppe Marano: “Io sono generoso perché sparo le idee che ho avuto nel mese in 3-4 tavole di sceneggiatura, mentre conosco gente che vi spalma una minima intuizione di seconda mano su 17 – 20 tavole”), poi passa oltre, sempre in cerca di qualcos’altro. Quel primo demenziale Rank, oltre al lavoro di gruppo su Cannibale, segna un’epoca di passaggio fondamentale per il fumetto e il nostro paese in generale. Come già detto, il fumetto, meglio del romanzo e dei suoi vati del periodo (su tutti Moravia e Calvino) riesce ad intercettare lo spirito del tempo. Ma qual è questo spirito? Cannibale rappresenta l’affacciarsi del Tamburo sulla scena multiforme del ’77.

Altri autori di quel periodo emergono in quegli stessi mesi convulsi, su tutti l’esordio su Alter Alter di Andrea Pazienza. Il movimento del ’77 è il vortice che fa da sfondo, l’energia e la febbre che si respira nell’aria. Miguel Gotor, nel suo Generazione Settanta, scrive del ’77 partendo dal raduno giovanile del Parco Lambro del ’76, festival musicale organizzato dalla rivista Re Nudo e cominciato in un clima euforico di liberazione collettiva sfociato nel delirio, nella violenza e nel vandalismo. Le scuole come i licei pullulano di brigatisti in erba, alle manifestazioni di piazza gli esponenti più esagitati mettevano a ferro e fuoco le città, Milano, Bologna, Torino, Roma. A Bologna, l’11 marzo muore lo studente Francesco Lorusso, durante una carica della polizia per disperdere degli autonomi intervenuti per contestare un’assemblea universitaria di Comunione e Liberazione. A Bologna, in particolare, c’è il corso di laurea del DAMS, creato da Umberto Eco a inizio decennio e dove insegnano scapigliati come Gianni Celati e Giuliano Scabia.

Il 12 maggio a Roma, a Ponte Garibaldi, muore Giorgiana Masi, simpatizzante radicale. Pochi giorni dopo, a Milano, una violentissima manifestazione di Autonomia operaia in cui perde la vita l’agente di pubblica sicurezza Antonio Custra. Gotor riporta anche notizie poco conosciute, un cono d’ombra di episodi legati alla lotta armata e a formazioni minori di cui ancora oggi si sa pochissimo; tra il ’76 e il ’79 vengono colpiti medici accusati di praticare aborti clandestini. Il 2 dicembre del ’77, ad esempio, viene colpito Giorgio Coda, neuropsichiatra che lavorava all’ospedale di Collegno, accusato di praticare l’elettroshock ad omosessuali, alcolisti e tossicodipendenti, oltre che ai bambini. Delle fantomatiche squadre armate proletarie fecero irruzione nel suo studio di Torino e lo gambizzarono, lasciandogli poi appeso al collo un cartello di rivendicazione. Guido Crainz, nel Paese Mancato, sintetizza il ’77 ricordando come l’innesco inconsapevole è offerto dal ministro dell’istruzione Malfatti che introduce misure restrittive per piani di studio e appelli esami, riaccendendo la mobilitazione studentesca.

Il primo febbraio scontri all’Università di Roma, bottiglie molotov, armi, uno studente gravemente ferito da un colpo di pistola, poliziotti in borghese nascosti tra la folla. Nei giorni successivi è una girandola di eventi, la marea sale a Torino, Milano, Mestre, Trieste. Vi è poi il comizio del segretario generale della Cgil Luciano Lama all’Università di Roma, comizio che finisce presto in slogan, fischi e scontri pesantissimi che costringono Lama alla fuga precipitosa. Il ministro dell’interno Cossiga annuncia alla tv nuove severissime misure di polizia, con l’Unità e il PCI di Berlinguer a fare da coro contro lo squadrismo dei movimenti. Colpisce soprattutto come il partito comunista sia totalmente incapace di dialogare coi movimenti e capirne le urgenze di fondo. Già, i bisogni di fondo. Quali? Nanni Balestrini e Primo Moroni, in un bellissimo libro (L’orda d’oro, prima della SugarCo e poi nella Feltrinelli) inquadrano meglio di altri il cuore di quegli anni e di quelle generazioni. Il movimento del ’77 è assai diverso da quello del ’68.

L’Italia è cambiata in quasi dieci anni. Non ci sono più le stesse condizioni economiche. Famiglia e lavoro hanno smesso di essere dei modelli di omologazione, così come la classe operaia comincia il suo inarrestabile declino all’interno di una riconversione industriale avviata già all’inizio del ’74 con la crisi del petrolio. Sindacati e partito comunista, oltre che ai partiti di governo, non riescono a vedere e capire la nuvola di nuovi soggetti proletari altamente scolarizzati che si affacciano nella seconda metà dei ’70; nuovi ragazzi che non sono più interessati a sgomitare per un posto fisso in fabbrica o in un ufficio qualunque. Una nuova gioventù che, in uno scenario di progressiva dissoluzione e perdita di centralità del lavoro industriale, sceglie il lavoro mobile, precario. Il movimento del ’77 appare frastagliato in collettivi, soggetti differenti con differenti aspirazioni, una galassia frammentaria che si coagula e disperde a ondate, strani studenti che occupano le università delle più grandi città italiane, formando cortei colorati pieni di ironia, cinismo, dissacrazione e creatività. La morte di Francesco Lorusso accende un fuoco a Bologna. Scontri, città assediata, l’aria resa irrespirabile dai lacrimogeni, lo stato d’assedio, i carrarmati inviati da Kossiga con la K da fumetto nero di Magnus. Altri scontri terribili a Roma il 21 aprile, poi la morte del poliziotto Settimi Passamonti.

Il 12 maggio la tragedia di Giorgiana. Il settembre bolognese è invaso da giovani che provengono da tutt’Italia, flussi magmatici di indiani metropolitani, gente colorata, canti, balli, teatro di strada, piazze come bivacchi, sacchi a pelo, strumenti musicali, zaini e tanta musica. Un universo giovanile e pop che mescola avanguardia, tardo psichedelismo, Beckett, Céline, canzoni, fumetti e poesia, ma che è anche una cupa premonizione. Per Moroni e Balestrini il ’77 italiano è il culmine di una prolungata stagione di lotte operaie e nuovi movimenti di rivolta giovanile. Da un’iniziale euforia messianica si passa a un tono disperato e autodistruttivo, in cui il futuro appare arido e deserto. Il rifiuto del lavoro rappresenta il culmine di un’esasperazione che vede nella fabbrica e nel lavoro manuale e parcellizzato qualcosa di orribile da cui sfuggire. Il flusso magmatico di quei movimenti si disperde ancora, germoglia nelle incarnazioni dei Cobas o nei numerosi centri sociali che si moltiplicano negli anni ’80. In altri si produce una sindrome di inutilità, la sensazione di marginalizzazione a cui rispondere soltanto nascondendosi nel privato, abbracciando la nuova cultura dell’impresa, la fluidificazione sempre più estrema del lavoro, l’individualismo e i silenzi dei grandi labirinti metropolitani. Che l’aria si fosse fatta pesante lo si poteva intuire da molti segnali.

Umberto Eco, commentando a caldo gli aspri scontri del 14 maggio a Milano, si era concentrato su una celebre fotografia di un uomo con passamontagna. Gambe flesse e braccia tese a impugnare una pistola. Per Eco l’idea di rivoluzione, di qualunque rivoluzione possibile finiva già lì: l’uomo col passamontagna in via De Amicis di quel 14 maggio del ’77 era già una figura solitaria da film poliziesco, qualcuno che esprimeva un gesto solitario che produceva un terrificante isolamento. Altrove, poco prima, all’Hotel Flora in via Veneto a Roma, un famoso regista di film horror annusa l’aria che tira dalla porta finestra della sua stanza/isolamento. Esce solo all’alba per delle brevi passeggiate, ogni tanto riceve degli amici, alcune attrici. Poi rimane solo, in attesa di qualcosa. Si butta sul letto vestito, aspetta. Dentro sente crescere qualcosa che lo spaventa, la voglia fortissima di avvicinarsi a quella porta finestra aperta come una bocca sensuale e lasciarsi andare, gettarsi nel vuoto, alleggerirsi del peso della vita, dei ruoli, dei problemi, delle difficoltà, delle speranze, delle dipendenze. Qualcuno gli consiglia di mettere dei mobili davanti alla porta finestra e aspettare, resistere.

Il fiume di eroina che dal ’75 ha invaso l’Italia, fin dentro le lande della piccolissima provincia, ha cominciato a fare il suo effetto. Colpa di una cospirazione occulta della CIA e del Governo per spegnere i movimenti? Vanessa Roghi, in un piccolo e bellissimo libro di Storia e memoria personale (Piccola città, una storia comune di eroina, Laterza 2018) ha una risposta migliore:  l’eroina non penetra solo nei movimenti ma in vari e differenti strati sociali, tra diverse appartenenze politiche e differenti fasce di età; l’eroina trova porosità in comunità sempre più militarizzate, tra persone che ormai si sentono abbandonate, espulse, non capite dalla politica del tempo; soggetti alla deriva che maturano un senso profondo di sconfitta ed emarginazione metropolitana. La droga diventa una via di fuga, una risposta individuale, un modo per compensare la perdita dell’impegno e il ritorno a un privato senza sbocchi. Altri svendono i simboli della militanza, celebrando al Macondo di Milano (sotto lo sguardo furbesco di un redivivo Mauro Rostagno) un funerale situazionista di qualunque utopia1.

E il Tamburo? Negli anni ’80 cercherà di far grana con la pubblicità e la moda. Gli andrà male. Nell’86 ci lascerà la pelle per overdose. Verrà ritrovato da Sparagna, Pazienza, Vincino e il padre del Tamburo dopo due settimane. Così Scòzzari ne scrive l’epitaffio in Prima pagare poi ricordare (ora un Fandango libri del 2017): “Se volete guarire qualcuno dalla sua mania per i film splatter, portatelo in una stanza dove è morto e rimasto per dieci giorni uno di novanta chili. Tutte le trasformazioni chimiche dell’aldilà si erano date convegno e avevano operato proficuamente in quella calda primavera romana, la lattica, l’ureica, l’acolica, la caseosa, l’acetica. L’odore era infernale, ma dominava un misto di vomito e formaggio di piedi. L’impronta nera del corpo di Stefano era stampata netta sul materasso steso a terra. Non volevo guardarla ma ne ero ipnotizzato”. Anche Andrea Pazienza attraversa per intero la parabola del ’77 e si spegne per eroina verso la fine degli anni ’80.

Nel suo primo lavoro, Le straordinarie avventure di Penthotal, uscito a puntate su Alter Alter in quel ’77, la dimensione collettiva, i cori, le danze, gli indiani, le utopie, sono subito marginalizzati dalle pene d’amore del protagonista, un sosia alter ego dell’autore; Penthotal/Pazienza si muove nelle ideologie e negli sfondi del ’77, tra fumo di lacrimogeni, camionette della polizia, università intossicate di scritte e figure umane abbruttite accasciate al suolo, ma la sua traiettoria scivola subito verso uno stato onirico che lo allontana sempre più dalla realtà che lo circonda, dagli slogan e dalle ragioni dei movimenti. Pazienza fiuta il suo tempo, ma non è particolarmente interessato a quel che ha intorno. Da buon narcisista perde aderenza con quella realtà, sprofondando in una surrealtà autoreferenziale che somiglia molto al  Moebius del tempo e che solo nell’ultima tavola sembra prefigurare qualcosa di tragico, quasi una macabra premonizione: un tabellone dei treni, la parola Bologna e in primo piano una figura ricciuta con passamontagna e mitra a segnare un cambio di passo, un clima fatto non più di manifestazioni ma di carceri speciali posti di blocco e ultime terrificanti stragi alle stazioni e ai treni.

Dopo Penthotal Pazienza metterà in scena l’edonismo e il vuoto degli anni ’80 nelle gelide e banalmente repellenti storie di Zanardi, per poi terminare la sua parabola coi quaderni e i fogli sparsi del Pompeo, summa del suo lavoro e requiem di un’esperienza personale e forse di un’intera stagione del nuovo fumetto italiano. Pompeo è un Penthotal prosciugato, una prosecuzione e conclusione del personaggio sfaccendato e senza lavoro del primo libro. Pompeo è un autore affermato di fumetti, un cinico e menefreghista in un paese altrettanto indifferente e spietato. In una narrazione nuovamente sconnessa e liberissima, Pazienza racconta gli ultimi giorni prima del suicidio di un tossicomane che gli somiglia come una goccia d’acqua, un tran tran quotidiano fatto di pere e noia, strade solitarie, palazzi, depressioni improvvise, ultime allucinazioni e rari incontri con altri fattoni a loro volta relitti dimenticati di quelle ultime stagioni convulse del ’77. L’assenza di speranze, la pesantezza del tratto, il minimalismo della messa in scena paiono insomma un modo originalissimo e differente per lanciare un’ultima invettiva in un paese che pare davvero senza storia, memoria, passato, grandezza, dignità, realtà, programmi, progetti, avvenire.

In modi e forme diverse, anche Alberto Arbasino inquadrerà gli anni ’80 italiani con una lucidità spietata. Un paese calderone senza realtà, onirico, acquattato in una cultura televisiva che impartisce nuovi modelli di gusto e in cui sopravvive un’Italia macabra, ancestrale, fortezza cibernetica e capitalista di paraculaggini varie, anarchia folk, leggi ferree però ignorate da tutti, volgarità, censure, pornografia da cabaret, una casbah picaresca e puttanesca di femministe, terroristi, ministri, funzionari, esperti, deputati, drogati, insegnanti, cantanti, cinematografari. Dopotutto la futura società di massa prefigurata dal Ranxerox del Tamburo era piena di coatti aggressivi e belligeranti, qualcosa di troppo pop e fracassone rispetto alla melassa di opportunisti e cialtroni di Arbasino.

Nonostante la fine di quella stagione appena descritta, il fumetto continua a godere di ottima salute (non posso dire la stessa cose del cinema, la musica, la letteratura): Tamburo e Pazienza si iniettano l’ultima dose mentre nasce il fenomeno di Dylan Dog e si rivela l’estro narrativo di Tiziano Sclavi. Dopo ci sarebbe stata la breve e folgorante stagione horror di Splatter, Mostri, il Gordon Link di Manfredi e miriadi di altre imitazioni. Negli anni zero il fumetto rinasce sotto la spinta di autori che hanno saputo costruire storie capaci di leggere il presente attraverso la combinazione di immagini in sequenza e testi. Le operazioni editoriali di Igort con Coconino e poi Oblomov, gente come Gipi, Bacilieri, Galli, Aka b, Filosa, lo stesso Igort. E ancora il recente ritorno in edicola di una rivista come Alter Alter. Ma questa è un’altra storia.

  1. È sempre Vanessa Roghi, in un differente lavoro dedicato alla figura di Don Lorenzo Milani, a ricordare le differenze percepite dai sessantottini verso i giovani del ‘77: “Gli studenti che solo dieci anni prima rappresentavano la punta di diamante delle istanze di trasformazione del mondo, ora incarnano soltanto disgregazione, individualismo, rifiuto generico di ogni proposta politica o culturale e dell’impegno. Almeno, questo è quello che pensa di loro la generazione che li ha preceduti, quella di Langer e del Sessantotto. “Ma chi ci crede ancora? Era l’interrogativo ricorrente, e poco importa se veniva riferito alla scuola o alla politica, alle lotte o al tutta la vita deve cambiare. L’assenteismo diffuso e la fiacchezza e sterilità di ogni dibattito mi hanno fatto venire la tentazione di andarmene, di piantare (almeno per qualche tempo) la scuola”, scrive Langer, concludendo la riflessione sulla bocciatura”.

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