L'ebraismo è prima di tutto una cultura. Comunque: Fausto Coen ci porta in una città dove si parla un dialetto parallelo, fatto di termini ebraici impastati con la lingua del posto, un gergo creato (forse) per non farsi intendere più di tanto, ma questo accadeva anche fra i gentili, per cui non fa testo e non può essere annoverata fra le presunte "furberie" dei giudei.
Coen rivive i momenti fra l'inizio della prima guerra mondiale e il rientro dal campo di concentramento dell'unico sopravvissuto della numerosa comunità ebraica attraverso gli occhi di un forestiero ebreo, una sorta di figura lunare senza una lingua definita, il quale raccoglie spiccioli in cambio di origami astratti. L'indecifrabilità della lingua che parla e di conseguenza anche del suo nome portano di conseguenza ad una libera interpretazione, "Cussì", storpiatura di chissà quale nome straniero (si scoprirà poi, ma non posso bruciarvi il finale!).
In queste cento pagine c'è condensata tutta la vera essenza di un ebraismo italiano unico al mondo, descritto da pochi e spesso descritto male, fatto di un essere italiani prima ancora che ebrei.
Il fascismo riuscì a distruggere questo patrimonio culturale e civile in un colpo solo, consegnando i nostri concittadini di cultura ebraica al mostro nazista, quella dannata sera del 20 Aprile del 1944. Il libro non è malinconico, non commuove, non è incalzante, non è difficile, non è delicato, non è sognante, non è superficiale. E' solamente bello, come una equazione matematica. Ma non posso e non voglio svelarvi il finale, dannazione.