Fantastico

Gormenghast. La trilogia, di Mervyn Peake

Venerdì, 29 Novembre 2024

Nel cuore della foresta s’innalza una costruzione che sembra uscita da un sogno surrealista o da un incubo gotico: un fantasmagorico dedalo di torri, colonne, archi slanciati, portali, ripidi camminamenti e vertiginose scalinate; un alveare di pietra che cattura lo sguardo e infiamma l’immaginazione. Il giardino scultoreo di Las Pozas1 ha evocato nella mia mente lo spettro di Gormenghast, lo stupefacente castello-labirinto di Mervyn Peake; una magnifica e inquietante presenza-assenza destinata a infestare la mente dei lettori.

Che cos’è Gormenghast? Tentativo d’esaurimento di un luogo letterario: è una prigione da cui è impossibile evadere; è un meccanismo a orologeria; è il dominio della tradizione; è il regno dell’immaginazione; è una foresta di simboli; è un fantasma ineliminabile2; è l’inferno; è il paradiso; è l’infanzia perduta e ritrovata. Gormenghast è tutto questo e molto di più: è un palcoscenico di parole-pietre su cui si alternano la passione, l’orrore, l’inquietudine, il mistero e la meraviglia. Percorrere i suoi labirintici corridoi equivale ad attraversare un oscuro specchio d’inchiostro, a smarrirsi in un Paese delle Meraviglie3 che non è altro che un riflesso, distorto eppure veritiero, del nostro mondo.

La fisionomia del castello è solo apparentemente scolpita nella pietra-tradizione: con lo scorrere degli anni-capitoli, il suo profilo roccioso si altera progressivamente; denti-personaggi spuntano mentre altri cadono, aprendo vuoti impossibili da colmare. Davanti agli occhi del lettore sfilano personaggi sopra le righe, figure che sembrano uscite da un dramma shakespeariano o da bassifondi dickensiani: dal malinconico conte Sepulcrio de' Lamenti alla maestosa contessa Gertrude, dall’irrequieto Tito, futuro erede del casato, al machiavellico Ferraguzzo, dal poeta di corte allo scrittore fallito circondato da libri invenduti. Personaggi destinati a incontrarsi e scontrarsi in corridoi oscuri, a svanire in labirinti sotterranei e a precipitare nei baratri della disperazione e della follia.

Chi si avventura in questo dedalo di stanze-pagine deve fare i conti con una concezione del tempo diversa da quella a cui è abituato. All’inizio, il lettore ha l’impressione che le lancette dell’orologio si siano fermate: la tradizione, teoria di riti immutabili e spesso incomprensibili, rallenta inesorabilmente il passare delle ore e degli anni. Poi, sotto lo spinta delle istanze rivoluzionarie incarnate dall'“eretico” Tito e dall’incendiario Ferraguzzo, l’esistenza stagnante di Gormenghast subisce un’accelerazione. Di pagina in pagina, la sabbia rimasta nella clessidra scorre sempre più rapidamente, scandendo i minuti che restano prima della parola fine e dell’ultimo respiro di Mervyn Peake.4

Lo stile di Peake segue il ritmo dettato dall’orologio interno di Gormenghast: la penna scorre sulla carta alla stessa velocità con cui il sangue scorre nelle vene di pietra del castello-creatura. Nel primo volume, la prosa è barocca e ricercata: un intrico di frasi che si snodano lentamente, come serpi indolenti; le suggestive e accurate pennellate dello scrittore-illustratore permettono al lettore di cogliere ogni dettaglio del castello, d’immergersi completamente in quel mondo altro. Nel secondo libro, fatta eccezione per alcune parentesi liriche, il Peake pittore cede il passo al Peake narratore5. Nell’ultimo tassello della saga, la scrittura abbandona i barocchismi e l’eleganza dei capitoli precedenti, per votarsi alla brevità e alla velocità, ma, quando il fantasma di Gormenghast ritorna prepotentemente in scena, la prosa si tinge ancora una volta di poesia.

La Trilogia di Gormenghast assomiglia a un albero maestoso e intricato. Le radici, radici che affondano nei campi di battaglia della Seconda guerra mondiale, sono state nutrite dalle letture di Peake e dalla sua sensibilità artistica. Il tronco è stato diviso in due da un fulmine: da una parte c’è il primo volume, scandito da rituali ancestrali, in cui il lettore assiste alla nascita di Tito, esplora le sale del maniero e impara a diffidare di Ferraguzzo; dall’altra c’è il secondo libro, pervaso da una sotterranea spinta rivoluzionaria, in cui Tito battaglia col suo retaggio e con l’infido Ferraguzzo. I rami che si spingono verso il cielo, dita nervose e talvolta spezzate, rappresentano la queste di Tito: nel terzo capitolo della saga, il giovane si lascia alle spalle il castello, illudendosi di poter sfuggire allo spettro di Gormenghast, per andare incontro alla Modernità. Le foglie non germoglieranno mai: la morte di Peake ha congelato l’albero in un eterno inverno.

Chi osa scalare quest’albero grandioso è destinato a compiere la sua ascesa sotto l’egida della luna: il mondo d’inchiostro di Mervyn Peake è un mondo onirico, fatto di ombre fittissime, rischiarate a tratti da lampade multicolori che richiamano le vetrate delle cattedrali gotiche. I passaggi chiave della saga sono una teoria di inquietanti, disturbanti e avvincenti notturni: al calar delle tenebre, si tessono intrighi, si spezzano vite e si evocano fantasmi. Queste fatidiche notti, queste scene lunari, sono l’una il riflesso dell’altra: una serie di rimandi e parallelismi attraversano i tre capitoli della tenebrosa storia di Tito, dando vita a una fitta ragnatela di parole.

Il castello-alveare-ragnatela della stirpe de' Lamenti racchiude tra le sue mura una miriade di simboli, temi e registri narrativi. Peake invita il lettore a sciogliere enigmi, a prendere parte ad arcani rituali e a sedere davanti a un trono che intrattiene più di un legame con la vuota corona di Shakespeare. Chi segue le orme di Tito è destinato a incontrare l’amore – filiale, materno, paterno, coniugale, sensuale, disperato e vendicativo –, a scontrarsi con i dettami della tradizione e a interrogarsi sulla sua identità. Tra le mura del palazzo, si passa in un battito di ciglia dal gotico al grottesco, dalla paura alla meraviglia, dalla tragedia alla commedia: se tutto il mondo è un palcoscenico, allora la “o” di pietra di Gormenghast racchiude in sé l’intero mondo.

Il castello di Gormenghast è entrato a pieno diritto nel catalogo dei luoghi letterari più iconici e fantasmagorici: è uno spettro a cui non si può sfuggire, sia che si presenti in tutto il suo splendore decadente, sia che venga rievocato tra le rovine di una civiltà sull’orlo dell’abisso. Edward James, l’artefice di Las Pozas, ha dato vita a un giardino immarcescibile, in grado di resistere ai rigori dell’inverno, invece, Mervyn Peake ha costruito un imperituro dedalo di parole-pietre: parole eterne, indimenticabili, capaci di sopravvivere al loro autore e allo scorrere della sabbia nella clessidra.

  1. Questo articolo ha iniziato a prendere forma dopo la visione di un documentario dedicato al giardino di pietra di Edward James.
  2. Prendo in prestito la definizione che Claudio Magris ha coniato per la Praga oscura e indimenticabile di Urzidil e Kafka.
  3. Mervyn Peake ha realizzato delle illustrazioni per un’edizione di Alice nel Paese delle Meraviglie.
  4. Lo scrittore, pittore e illustratore inglese è morto prima di poter completare il suo progetto narrativo, prima di aver cantato l’intera parabola esistenziale di Tito de' Lamentii. Quindi, Gormenghast, come sottolineato su Tvtropes, non è una vera e propria trilogia, ma una saga (incompiuta), composta da: due volumi che formano un dittico (Titus Groan e Gormenghast); una novella (Boy in Darkness), ambientata tra il primo e il secondo libro; un terzo romanzo (Titus Alone), che Peake non ha avuto il tempo di editare, in cui Tito attraversa la sua personale linea d’ombra, lasciandosi alle spalle il castello.
  5. Bill Kerwin ha descritto molto bene questo cambio di passo/stile nella sua recensione.↩︎

Scheda del libro

  • Titolo: Gormenghast. La trilogia
  • Autore: Mervyn Peake
  • Traduttore: Anna Ravano e Roberto Serrai
  • Pagine: 1170
  • Editore: Adelphi
  • Anno: 2022
  • Anobii: scheda del libro

Libri per genere: