Fantascienza

La nube purpurea, di Matthew P. Shiel

Domenica, 14 Gennaio 2024

Ho saputo dell’esistenza del libro di Matthew Phipps Shiel, La nube purpurea, da un articolo di Giorgio Manganelli. L’autore di Centuria, solitamente piuttosto distaccato nei giudizi (o snob, ma poteva permetterselo) si lanciava in uno spericolato encomio definendo capolavoro il romanzo dello sconosciuto (a me almeno) scrittore inglese e trovando ingiusto che fosse tanto dimenticato in Italia come in patria.

Mi sono quindi procurato il volume della Adelphi e ho iniziato la lettura. In poche righe mi sono reso conto che la prosa di Shiel, benché la stessi leggendo tradotta nel nostro idioma da Juan Rodolfo Wilcock, non era quella di uno scrittore professionista e tirava un po’ verso lo stile di quel classico imperdibile, sempre pubblicato da Adelphi, che è Il monte analogo di René Daumal, un altro scrittore non professionista. A queste prose (Shiel, Daumal e altri) sembra mancare l’ultima revisione, difettano di quella facilità di espressione, quel senso della frase di altri e più riconosciuti scrittori. Questo però non toglie nulla alla validità di un romanzo che non è fatto solo di bella prosa. Ci sono infatti scrittori che in sé scrivono benissimo, ma romanzi inconsistenti. Pensiamo al nostro Aldo Busi, che mi è caro e che considero molto intelligente, ma – ahimè - resta un grande scrittore di pessimi libri. A voler vincere facile, si può buttare sul tavolo qualsiasi cosa scritta da Thomas Mann per capire, anche in traduzione, che c’è chi sa scrivere delle pagine memorabili con uno stile al tempo stesso personale e perfetto.

Ma torniamo a Matthew P. Shiel. La prima cosa notevole da sapere è che era un medico. Troviamo grandi scrittori tra i laureati in medicina, è questo un fatto curioso che sarebbe da analizzare. Céline, Cechov, Bulgakov, Schnitzler, Conan Doyle, Cronin, Carlo Levi, Oliver Sacks e Michael Crichton (che è l’autore, fra molto altro, della serie televisiva ER) erano tutti usciti dalla facoltà di medicina e qualcuno di loro non abbandonò mai la professione. Cechov, il grande drammaturgo e scrittore di racconti, diceva che la medicina era la sua sposa, ma il vero amore lo faceva con la sua amante, la scrittura. Di certo in comune lo scrittore e il medico hanno l’assenza di orari, il doversi alzare nel cuore della notte e la capacità di restare lucidi in condizioni terribili.

Altra cosa importante di questo autore è che era nato su un’isola della Antille britanniche (come il poeta Derek Walcott) e che per il suo quindicesimo compleanno fu incoronato, da un predicatore wesleyano e su specifica richiesta del padre, sovrano della piccola isola deserta di Redonda, col nome di Re Felipe I. Questa cosa (l’essere sovrano assoluto di un regno disabitato) ritornerà prepotente ne La nube purpurea come un’ossessione. È infatti un romanzo ossessivo quello di cui voglio parlarvi.

Il libro uscì nel 1901 e parla nei primi capitoli di una spedizione al Polo Nord (qualche anno prima di Robert Peary dunque). Raggiungerlo e conquistarlo era un antico sogno umano e nell’Ottocento furono in molti a provarci. Per tutti i primi decenni del secolo scorso arrivare al Polo Nord era considerata l’impresa per antonomasia. Noi italiani ricordiamo (o dovremmo ricordare) le gesta di Umberto Nobile e del sommergibile Italia. Prima di questa sezione del libro c’è l’esposizione dello strano stratagemma usato per far sembrare plausibile la storia narrata dall’autore: una medium in trance espone questa strana storia che l’autore andrà a riportare. L’idea è forse quella di dare alla storia un sentore di profezia, cosa che andava di moda tra i due secoli, così come infilarci la medium o le sedute spiritiche.

I capitoli della spedizione al Polo sono avvincenti, non c’è che dire, con pagine notevoli e dettagli piuttosto crudi. La precisione dei dettagli è una cosa che accomuna i medici scrittori, così come i particolari inclementi. Una volta che il protagonista (che scrive un diario, in prima persona) arriva in solitaria al Polo è sopraffatto da una tormenta di neve e dalla stanchezza, scava nella neve un rifugio e crolla credendosi spacciato. La morte però non arriva e lui si trova, dopo un tempo imprecisato, forse addirittura di più giorni, ad essere ancora vivo. Esce dalla sua tana e affronta il lungo, lunghissimo viaggio di ritorno con i pochi cani che insieme a lui sono sopravvissuti. A questo punto comincia il vero romanzo, da qui in poi si precipita in un incubo che ha lasciato Manganelli (e me) pienamente sconvolti.

Non voglio anticipare niente, non posso rovinarvi la sorpresa, vi posso solo dire che è stato un vero incubo riuscire ad arrivare alla fine. Procedevo con ripugnanza mista a interesse, tensione narrativa, voglia di andare avanti per capire fino a che punto poteva spingersi questo autore, e angoscia. Ci sono pagine che mi hanno lasciato, anche adesso che ne scrivo a distanza di mesi, un senso di sovrabbondante disfatta, di profondissima solitudine e sfiducia nella natura umana che sinceramente non pensavo che ne avrei mai scritto una recensione.

Se lo sto facendo è perché in questi giorni mi sono imbattuto in un libro di Winfried Sebald il cui titolo - Storia naturale della distruzione - mi ha richiamato alla memoria il libro di Shiel. Sebald parla della distruzione delle città tedesche ad opera degli anglo americani in quella orribile e ingiustificata impresa denominata moral bombing, l’idea cioè di piegare il morale della popolazione con bombardamenti indiscriminati. Lo scrittore tedesco spiega con cognizione che dal punto di vista militare sarebbe stato molto più conveniente distruggere le fabbriche di cuscinetti a sfera e di armamenti, le infrastrutture, le strade, le ferrovie, in modo da bloccare in pochi mesi l’intero apparo bellico del Terzo Reich. Ma la realtà fu che nemmeno la ferrovia che portava milioni di infelici ad Auschwitz venne mai presa di mira, pur sapendo tutti quello che stava succedendo all’interno. Con le città devastate (specialmente i centri storici di città bellissime) e con fabbriche e strade funzionanti, i volenterosi carnefici di Hitler riuscirono a portare avanti la guerra per altri due anni.

In questo notevole saggio di Sebald ci sono pagine terribili del racconto dei sopravvissuti ai bombardamenti al fosforo e alle bombe incendiarie dove si descrive che l’eccesso di incendi in aree vaste creava uno scompenso di masse d’aria, con venti a temperature da sciogliere il piombo a oltre 150 km orari, tali da creare dei veri uragani di fuoco con piogge di vetri, mattoni, tegole, alberi e corpi umani. Queste lucide pagine di stralunante angoscia mi hanno subito riportato alla mente i terribili capitoli di vera discesa agli inferi nella follia della Nube purpurea.

In più, nel romanzo si ha il senso della narrazione che avvince e ripugna allo stesso tempo, e con la lettura cresce la voglia di proseguire, anche solo per sapere come andrà finire, quanto ancora l’autore riuscirà a portare avanti una simile tensione. Vi posso solo dire che verso la fine, nell’ultimo quarto del libro (che è tutt’altro che breve), avviene una inaspettata scoperta, un evento inatteso e apparentemente positivo e salutare, quasi una caduta nel banale di un romanzo di genere, ma il protagonista è talmente abbruttito nella sua follia che non lo riconosce contro ogni evidenza e non vede che ha davanti a sé la salvezza. Al contrario, si accanisce contro questa palese speranza con tale sadica pervicacia che il lettore è portato a lanciare improperi di sdegno verso un simile personaggio, tanto triste e stupido.

Giunto stremato alla parola Fine e voltata l’ultima pagina sono rimasto in silenzio, a lungo costernato, non sapendo che cosa fare. Ero tentato di bruciare il libro come di riprenderlo per capire se nei capitoli iniziali fosse disseminato qualche indizio di come si sarebbe svolta la vicenda. È un libro lungo, più che per le pagine per certe lentezze e episodi forse un poco inutili, specie nella seconda parte, ma se il romanzo è l’atto di ritardare la fine il più possibile tenendo avvinto il lettore, ero decisamente al cospetto di un capolavoro. Per questo, dopo avervi con forza avvisato del pericolo, vi invito sinceramente alla lettura. Shiel fa effettivamente vivere al lettore quanto racconta, l’esperienza del protagonista nell’affrontare un’esperienza tanto estrema, il pensiero che ognuno di noi in condizioni simili possa precipitare in tanto buio. Penso ai sopravvissuti di Sebald e ai sopravvissuti di tutte le guerre che si ritrovano anche oggi nella devastazione e senza speranza di salvezza.

Scheda del libro

  • Titolo: La nube Purpurea
  • Collana: gli Adelphi, 22
  • Autore: Matthew P. Shiel
  • Traduttore: J. Rodolfo Wilcock
  • Pagine: 338
  • Editore: Adelphi
  • Anno: 1991