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Antonin Artaud e il linguaggio del supplizio: scritture medianiche e manicomiali

Lunedì, 13 Febbraio 2023

Pasquale Di Palmo, in un delizioso libretto editato per Stampa Alternativa (Lei delira, signor Artaud, 2011), produce un sillabario essenziale per la conoscenza di un autore sfaccettato e complesso come Antonin Artaud. Di queste 21 voci mi colpiscono quelle che fanno riferimento al contesto letterario in cui si è mosso l’autore marsigliese, i suoi interessi per un meraviglioso letterario indagato in modo così personale. Non a caso la prima voce riportata da Di Palmo è proprio quella dell’alchimia, dottrina esoterica tra luce e tenebra che, insieme alla magia, abbonda nei quaderni e nelle lettere del poeta drammaturgo della crudeltà.

In una bella premessa alla rielaborazione narrativa del romanzo gotico di Gregory Lewis, Artaud si abbandona a una sorta di elegia nei confronti di maghi e indovini (ma vanno bene persino ciarlatani e guaritori da poco), vessilli di un mondo meraviglioso da contrapporre alle barriere fisiche e morali della realtà. In queste righe Artaud rincorre una fosforescenza psichica, un senso narrativo di libertà che può trovarsi anche nelle pagine a pochi spiccioli di imbarazzanti romanzetti per voyeur dai volti di cera; Artaud ritraduce e riscrive a suo piacimento Il Monaco di Matthew G. Lewis, nutrendosi di sepolcri, frati sgozzati e tombe di donne. Altrettanto feconda è la voce dedicata al delirio, punto di approdo in questa ricerca inesausta del meraviglioso. Un meraviglioso germinato in un contesto fecondo come quello del surrealismo, corrente in cui Artaud si intrattiene pochi anni e con cui condivide alcuni aspetti del suo carattere allucinatorio.

Sempre Di Palmo, in un altro volumetto nella collana Fiabesca di Stampa Alernativa, presentava in italiano l’avventura poetica del giovane Antonin Artaud, dalle prime liriche legate al clima simbolista di Poe, Baudelaire, Rimbaud, passando alle liriche visionarie e pamphlettistiche della stagione surrealista, fino alle missive deliranti da Rodez, punto di arrivo di una scrittura estrema e alienata. Il periodo surrealista (dal 1924 al 1926, quando il poeta nero viene messo alla porta per non aver aderito alla svolta comunista imposta da Breton) coniuga l’interesse dello scrittore per la magia e altre dottrine esoteriche con una fisicità anomala che in parte si ritroverà in un altro irregolare come Georges Bataille. Sorta di contraltare poetico della libera traduzione gotica dal Monaco sono le liriche dedicate alle mummie, poesie intrise di un simbolismo funebre e di un onirismo originale che sembra trovare un eco nelle scritture sonnamboliche (l’écriture automatique) praticate soprattutto da figure come Robert Desnos e René Crevel (le libere associazioni del pensiero tradotte sulla pagina, bozze narrative che si sviluppano liberamente attorno a un canovaccio programmatico poi coagulato in una serie di variazioni sul tema di partenza - e qui sarebbe interessante stabilire un rapporto preciso tra la scrittura automatica surrealista e lo spiritismo dell’epoca, vista la consuetudine, anche di questo primo Artaud nel frequentare medium o altri esponenti del mondo occulto).

Ricostruire in queste poche righe il percorso deragliato di un autore come Artaud sarebbe troppo complesso; mi limito a ricordare il dato biografico del suo internamento in vari manicomi, per la precisione dalla fine del 1937 alla primavera del 1946. Di Palmo ci riporta lo stato di quei manicomi, in particolare quello di Ville-évrard (1939 – 1943) dove le condizioni dei degenti erano spaventose, anche a causa dei razionamenti di cibo imposti dalla guerra. Lo stesso scrittore non fatica a rapportare la sua condizione forzosa a quella di altri malati e deportati nei campi di sterminio; i malati venivano rasati, purgati, costretti a indossare un sacco di tela e degli zoccoli, rinchiusi nei padiglioni che puzzavano di cadaveri, abbandonati a loro stessi e sottoposti a una privazione alimentare inumana. Sappiamo come, per interessamento di un altro grande irregolare come Robert Desnos, Artaud venne infine trasferito nel celebre manicomio di Rodez sotto la direzione del dottor Ferdière, medico amico dei surrealisti e convinto assertore di un’arte-terapia che potesse trovare un punto di incontro con le fissazioni dei degenti. Ferdière cercherà di riportare Artaud alla scrittura, stimolando la sua curiosità intellettuale; tuttavia il dottor Ferdière era anche interessato agli studi del neurologo Cerletti sull’elettroshock, tanto da aver fatto costruire in maniera artigianale un apparecchio per praticare la terapia elettroconvulsiva sui vari degenti.

Artaud verrà letteralmente devastato da una serie spaventosa di elettroshock, restituendoci un’autobiografia allucinata nelle pagine monumentali di Succubi e Supplizi (Adelphi 2004), incandescente stazione finale di un viaggio letterario che non riuscirà a trovare fino al ‘78 un editore. Succubi è un testo irregolare e di difficile catalogazione, costituito da lettere, brani in prosa, poesie, stenografie orali di magia nera e fatture. Tra sogni e visioni sfrenate, Artaud ricostruisce le agitazioni del suo pensiero febbrile aprendosi come non mai a una fantasia ormai oscura e impenetrabile, lontana dai lirismi, dalle navi arcaiche e le oasi terrestri delle prime liriche; tutto in Succubi è un limbo di solitudini e imprecazioni contro le istituzioni che lo hanno rinchiuso e distrutto nel fisico e nella mente; i pensieri dello scrittore marsigliese si annodano su schegge diaristiche che spaziano dalle lodi ad altri irregolari da sempre adorati (Nietzsche, Rimbaud, Poe, de Nerval) a scritti che sembrano sconfessare tutti gli interessi precedenti (la poesia, le dottrine esoteriche), fino a una rilettura corporale e oscena del proprio disfacimento. La magia e l’affatturare ritornano come forze invisibili che succhiano le energie vitali dello scrittore, bersaglio osceno di stregoni occulti che vogliono impadronirsi del suo corpo e lasciarlo in balia dell’idiozia e asineria umane.

Antoin Artaud scivola nelle spire di un delirio letterario affascinante e originale in quanto vero, vissuto sulla propria pelle, arrivando a identificare l’origine dei suoi malanni in un’orda silenziosa e anonima di demoni dall’aspetto trascurabile, piccoli tiranni del quotidiano come i preti, i poliziotti, i medici dei manicomi e tutte quelle figure di una società costituita con cui l’autore ha sempre trovato difficile andare d’accordo. Ed è in questa luce mortifera e luciferina degli ultimi scritti che Artaud si ricongiunge comunque con quel meraviglioso (più aperto e pieno di speranze) degli esordi o del periodo teatrale. Il meraviglioso di Rodez abbandona monaci spagnoli e riletture favolistiche e trova modo di omaggiare i sogni e le chimere del suo perturbante inseguendo la figura stregonesca di un Cristo nero non lontano dagli splendori demoniaci di Ambrosio e Matilde, un Cristo dalla testa d’asino (come in un rarissimo graffito palatino del III secolo d.C.) che trama contro le pubblicazioni farneticanti dell’autore.

Tra invocazioni d’aiuto, lamentele e glossolalie indigeribili sul porcaio erotico dei corpi, Artaud si avvicina a un furore letterario controllato e lucidissimo nella sua pianificazione costante, una scrittura dal limite e dai margini (una scrittura dettata a una giovane segretaria che fatica a decifrare le parole che escono da una bocca senza denti, da un Artaud che introduce nei flussi discorsivi glossolalie e vocaboli inventati, che indica puntiglioso capoversi e punteggiatura e lavora dal letto, mentre fa colazione, al tavolo del caffè, nei momenti di stanchezza, o sotto l’effetto mattutino degli ipnogeni che ne rallentano l’elocuzione e la deglutizione), sfracellata e resa frammentaria dalle terapie degli elettroshock e dai lunghi anni di privazioni nei manicomi francesi sotto l’occupazione tedesca. L’approdo finale è in questi piccoli quaderni di scuola corredati da disegni, schizzi e umori, verso un giorno senza notte e in una notte senza giorno, in una placenta gassosa di diarismo martirizzante, una riscrittura, rilettura che è registrazione fedele ed elaborazione psichica della profondità del proprio dolore e adesione totale agli aspetti repellenti e morbosi dell’internamento dei corpi. Una scrittura dall’interno del dolore, così come le scritture automatiche volevano esserlo all’interno dei sogni, o come le sedute spiritiche che volevano travasare un pezzetto di aldilà nella nostra realtà. La scrittura manicomiale di Artaud sembra ritrovare (anche solo per frammenti) quel desiderio di spingersi oltre i limiti, di coniugare il possibile con l’impossibile, di gettare una fioca luce in un territorio letterario che pochi altri dopo di lui hanno provato (a proprio rischio) a percorrere.

Rileggo quanto scritto e sento il bisogno di tornare brevemente su alcuni concetti: Artaud vive il manicomio quando questi è ancora una realtà disumana, aggravata dalle precarie condizioni della seconda guerra e dalle drastiche riduzioni dei finanziamenti di simili istituti sotto il governo di Vichy. Tuttavia la figura del direttore di Rodez, Gastone Ferdière è davvero affascinante. Medico, direttore di manicomio, amico di surrealisti, colto, innovatore, a suo modo figura anomala e illuminata, figura distorta dal rancore ulceroso dello scrittore marsigliese. Ferdière sembra confondersi (effettivamente, sfogliando le belle fotografie del raro Album Artaud o del bellissimo Pazzi di Artaud di Sylvère Lotringer, una certa somiglianza c’è) con la figura esoterica del dottor Caligari; Ferdière/Caligari dirigeva un ospedale abitato da rozzi campagnoli dell’Aveyron, fauna umana lontana dalle bizze e dai deliri letterari di un sulfureo attore, poeta nero, teorico di un teatro della crudeltà. La colpa di Ferdière (agli occhi dei tanti sostenitori postumi di Artaud) fu quella di averlo sottoposto a una lunga serie di elettroshock, terapia per convulsioni elettriche che, all’epoca, godeva del fascino stimolante della novità, ed era già abbondantemente utilizzata in Germania, ma poco conosciuta negli ambienti psichiatrici francesi del periodo bellico.

L’elettroshock provocava una reazione talvolta violenta, coi pazienti in preda a una sorta di crisi epilettica, seguita da una sorta di stato nebuloso della coscienza che si protraeva per giorni. È un fatto che a Rodez, a differenza del soggiorno forzoso a Ville-Évrard, Artaud migliorerà, tornando a dipingere, disegnare, tradurre (parti del Through the Looking-glass di Carroll, aiutato dal cappellano dell’Ospedale psichiatrico Henri Julien che, a differenza di Artaud, conosceva benissimo l’inglese), fino a sprofondare nella violenza linguistica delle innumerevoli pagine degli ultimissimi anni di vita. A Rodez Artaud continua a nutrire le sue idee deliranti, scivolando da un sentimento religioso incrollabile a una glossolalia bassa e purulenta, inseguendo il suo laboratorio di feti, peni e viscere disseminate nei quaderni. Lontano da qualunque orbita surrealista, in balia di una nuova generazione di psichiatri francesi, il lunatico febbricitante radicato nei suoi fantasmi interiori trova nel dottor Ferdière una figura anomala e originale per quegli anni, forse ingiustamente stigmatizzato e segnato anche per alcune dichiarazioni rilasciate negli anni ’70, nel pieno del movimento anti-psichiatrico.

Durante i suoi anni in manicomio Artaud sperimenta sulla propria pelle la clinica stigmatizzata da Foucault, spazio della malattia, metastasi e metamorfosi del corporeo, luogo artificiale in cui osservare una galleria di affezioni paralitiche, manie, nervature, febbri putride; la clinica ospedaliera sogna una geometria analitica, insegue una sintomatologia del visibile, l’occhio medico penetra nello spazio del corpo per vedere il male e isolarlo dal corpo sano della società; tuttavia Ferdière è un Caligari anomalo, forse un pre-Basaglia, anima buona costretta a lavorare col poco che ha a disposizione, grande amico del poeta Robert Desnos, convinto che i parafrenici siano capaci di fare cose meravigliose, accanito sostenitore di un’arte-terapia che possa almeno riconsegnare il malato a una parvenza di vita sociale. Nel vedere le fotografie che ritraggono Artaud e Ferdière seduti su una panchina nel giardino di Rodez si potrebbe forzosamente cercare una serena tregua tra un Cesare smagrito e senza denti non più negli abiti del mesmerizzato furioso e il suo pigmalione, anche lui pacificato, lo sguardo perso nelle chimere dell’ombra.

Scheda del libro

  • Titolo: La sentinella del male
  • Autore: Jeffrey Konvitz
  • Traduttore: Massimo Gasperini
  • Pagine: 244
  • Editore: Sonzogno
  • Anno: 1976