Misteri d'Italia

Guida alle guide dell’Italia lunare. Le Marche

Lunedì, 06 Ottobre 2014

Quando ero piccolo mio nonno mi mostrava la collina della Giana, o delle Giane (la grafia non importa: il dialetto non è fatto per essere scritto). Era – è – un rilievo ondulato, coltivato a grano: in mezzo stava un'apertura puntellata da mattoni, probabilmente (credo, oggi) un pozzetto medievale, scavato in corrispondenza di una fonte. Mi ci sarebbero voluti anni, e la lettura di Storia notturna di Carlo Ginzburg, per capire che quella misteriosa Giana (una donna? "Una specie", mi diceva mio nonno, senza entrare nei dettagli) altri non era che Diana cacciatrice, sopravvissuta e trasfigurata da duemila anni di Cattolicesimo; e le Giane null'altro che le Dianæ, le ninfe che l'attorniavano, ora divenute una qualche sorta di fate (donne? una specie).

La collina sovrasta una pianura fertile, poco distante da una necropoli gallica; poco lontano c'è Osimo, sorta su un precedente insediamento piceno. Da quelle parti i contadini disseppelliscono a volte colonne, cocci e fibule; uno di loro, ricordo, usava un sarcofago di marmo come lavatoio. Magari non c'era la città romana che una mia parente, filologa classica ed esperta di etimologia, aveva passato la vita a inseguire: ma almeno una fattoria, una stazione di posta doveva esserci stata sicuramente. E su quella collina, dove il pozzo medievale segnala ancora la presenza di qualche antica sorgente, doveva aver trovato posto almeno un piccolo ninfeo o un rudimentale tempio di Diana: è nelle fonti, del resto, che Diana si ristora dalle fatiche della caccia (e Atteone la vede); e fonte, in greco, si dice nymphe.

Quando ero ragazzino e raccattavo guide all'Italia misteriosa – fantasmi, tesori nascosti, folletti e misteri insoluti – niente mi pareva più deludente, da quel punto di vista, della regione dove ero stato condannato a nascere. Le Marche, così pensavo, hanno tutto, ma sempre in tono minore: la Riviera del Conero è splendida, ma non è la Costiera Amalfitana; e i Sibillini non sono le Dolomiti. Stessa cosa per i misteri. C'è la Giana, certo, ma vuoi mettere con Re Laurino e il Rosengarten? Nelle Marche non c'è nessuna Bomarzo, nessun fantasma che abbia il fascino di Azzurrina, nessuna tradizione popolare di rilievo; il folclore marchigiano è di una pochezza abbacinante, e la poesia popolare prevalentemente imperniata su infinite variazioni del doppio senso a sfondo sessuale. Nel raccogliere le Fiabe italiane, Italo Calvino si trovava ad ammettere che le Marche non hanno nessuna fiaba veramente autoctona; e Pier Paolo Pasolini, compilando la sua antologia di canti popolari italiani, rimarcava l'estrema povertà lessicale di quelli marchigiani, dove i capelli sono sempre d'oro e il fiore è sempre bello (e che è poi la stessa convenzionalità lessicale da cui sgorga la lingua poetica di Leopardi, ma quello è un altro discorso). Anche di recente, il mistero che trova spazio nelle cronache locali si limita a storielle di poco conto: lo spettro di un soldato napoleonico che si aggirerebbe in Piazza della Libertà a Macerata (1), streghe che parlano nel dialetto di Civitanova Marche (2). Solo la zona del Conero pare essere un piccolo paradiso per gli ufologi; e, certo, ci sono la Rocca di San Leo – dove venne rinchiuso e sarebbe morto (il condizionale è d'obbligo) il Conte di Cagliostro – e la Grotta della Sibilla, visitata, tra gli altri, dal Guerin Meschino e da Tannhäuser. E ciononostante, suppongo, a nessuno verrà mai in mente di dar vita a un Gotico Piceno.

Ciò detto, il flâneur dell'Italia lunare potrà comunque trarre diletto dal visitare una regione ancora non invasa dal turismo di massa, e indagare i piccoli, banali misteri di una provincia complessivamente fortunata: i seguenti titoli sono di conseguenza pensati per accompagnare un viaggio del genere, seguendo – com'è d'uso da queste parti – il filo della memoria, senza pretese di completezza. Se la sezione dedicata alle Marche dalla monumentale guida Sugar è avvilente, c'è almeno (è del 1990 e di non facile reperibilità, ma non si sa mai) Marche misteriose di Fabio Filippetti (Pesaro, Editrice Alpade); lo stesso autore ha licenziato nel 1988 il monumentale Miti e leggende del mistero, che con le Marche c'entra limitatamente e che anche per i contenuti è abbastanza dimenticabile, ma almeno ha un apparato iconografico di tutto rispetto (Firenze, Lucio Pugliese). Sempre Filippetti organizza da anni le Serate del mistero a Portonovo, di cui le edizioni Brillarelli di Ancona pubblicano di volta in volta i quaderni monografici (a proposito: misteri o non misteri, Portonovo vale comunque la pena). Giuseppe Bonura e Marcello Verdenelli hanno curato per gli Oscar Mondadori le Fiabe marchigiane, e Antonio De Signoribus ha pubblicato da non molti anni, con Newton Compton, Fiabe e leggende delle Marche. Esistono poi molte altre pubblicazioni locali a circolazione limitata e da tempo esaurite, ma diremo almeno che chi avesse la fortuna di mettere le mani su Cultura popolare marchigiana di Gastone Pietrucci (Jesi, Centro Studi Jesini, 1985) dovrebbe sapere di possedere un tesoro (in tutti i sensi). Pietrucci, poi, è cantante e principale ispiratore de La Macina, gruppo jesino di musica popolare di cui si trovano ancora in commercio i tre volumi di Aedo malinconico ed ardente, fuoco ed acque di canto editi da Storie di Note (2003, 2006 e 2010), più un interessante ibrido – al confine fra folksong, canzone d'autore e combat rock – realizzato nel 2004 assieme alla band filottranese The Gang (Nel tempo e oltre, cantando). Una colonna sonora di tutto rispetto per accompagnare le letture di cui sopra.

E però c'è un testo che merita un posto a parte – l'opera prima di un diciassettenne, un breve trattato scritto nel 1815 (ma pubblicato quasi cent'anni più tardi), e che è forse, anche se delle Marche esplicitamente non parla, il grande libro delle Marche lunari. Quando Giacomo Leopardi stende il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi il suo intento è di comporre un trattato erudito sulle superstizioni dei greci e dei latini: ed è curioso che il futuro materialista, l'ateo, il nichilista, scelga – nel momento di proiettarsi per la prima volta sul mercato editoriale – di parlare proprio di credenze soprannaturali. Per confutarle, certo, al chiarore rassicurante dei Lumi: ma con una fascinazione per l'occulto che traspare a ogni riga, e che a tratti (leggere per credere il capitolo sui Terrori notturni) assume toni quasi gotici. Il concetto stesso di Italia lunare, del resto, non può prescindere da Leopardi, al quale (per una volta Calvino ha ragione) la luna appartiene interamente: e non solo perché Leopardi – come dice Calvino – distilla la lingua poetica italiana fino a farle raggiungere la rarefazione lucente dei raggi lunari, ma perché tutta la sua opera è un grido disperato lanciato all'ormai inaccessibile sfera del mito e dell'incanto che ai moderni (o agli adulti) è preclusa.

Interessante, allora, che questo grido scaturisca da un paesino di quell'entroterra marchigiano così povero di misteri e di enigmi; e dall'atmosfera stantia della provincia pontificia, lontana anni luce dalla Milano romantica e cosmopolita in cui, in quegli stessi anni, passeggiavano Byron e Polidori, Madame de Staël e Stendhal. Ebbene, dice Leopardi, a noi quel romanticismo lì – i vampiri e Lenore, gli spettri tedeschi e le streghe di Shakespeare – non serve: perché le ragazze che si agghindano al sabato pomeriggio, per le strade di Recanati, hanno la stessa grazia ninfica delle fanciulle di Callimaco, e i terrori che gli antichi sperimentavano di notte (strepiti e Lamie, dèi sanguinosi e licantropi) sopravvivono nei racconti paurosi delle balie, nella grana stessa della lingua, e ci fanno fremere – da bambini, o quando, per un istante, il controllo vigile dell'intelletto si attenua – con lo stesso, sacro spavento dei nostri antenati. È solo su questi colli, scrive Leopardi altrove, che questo può avvenire, e l'espressione è da intendersi in senso strettamente letterale: su queste colline apparentemente dolci, ma dove il grano parla ancora di antichi sacrifici, di dee virginali e crudeli, e di ninfe beffarde che si bagnano alle fonti. Viene il sospetto, allora, che il Gotico Piceno non esista perché non ce n'è bisogno: e che i canti a doppio senso, i misteri poveri e banali, il sole sempre d'oro e il fiore sempre bello siano, in fondo, una difesa, un modo per celare ai forestieri – e a noi stessi – qualcosa di estremamente notturno e perturbante, mai veramente sopito. Ascoltate Fra giorno e notte so' ventiquattr'ore incisa da La Macina/Gang, sentiteli cantare di quella notte di Natale così scura, prestate attenzione a quella fisarmonica così sottilmente demoniaca che irrompe a un certo punto (3): c'è qualcosa di antico in tutto questo, qualcosa che è difficile da decifrare, e tuttavia atterrente – come un sentore di zolfo, pronto a trasfigurare in qualunque momento, con sorpresa, meraviglia, paura, la "luna recanatese" (la bella espressione è di Guido Ceronetti) nel volto, terribile, di Ecate inferna.

(La collina della Giana si può vedere andando da Osimo verso la frazione Passatempo: non aspettatevi niente di che, ve l'ho detto che le Marche sono una regione fin troppo discreta. Della presunta città romana – Veragra – ha scritto Maria Teresa Camilloni: il suo libro Su le vestigia degli antichi padri, di tanti anni fa, si può trovare ancora in qualche cartolibreria. Su Leopardi e le ninfe credo sia uscito qualcosa, a un certo punto: chi si ricorda)

  1. Il fantasma di un ufficiale francese si aggira per la piazza di Macerata
  2. Streghe e lupi mannari…il lato “occulto” di Civitanova Alta
  3. Fra giorno e notte so 24 ore, Gang- La Macina