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Sul finire degli anni Sessanta, il Belpaese visse un autentico boom del romanzo giallo, con un fiorire di pubblicazioni e collane su cui trovarono spazio anche diversi autori italiani, non più obbligati ad utilizzare pseudonimi anglosassoni come in passato, ma liberi di ricorrere al proprio nome di battesimo. Rispetto agli anni precedenti non solo aumentò la produzione, ma anche la qualità risultò migliore, come se il doverci mettere “la firma” obbligasse gli autori ad un maggior impegno, con soddisfazione di tutti, pubblico compreso. Il successo poi di Scerbanenco fece scuola e rese tutto più facile.

Roma. Un giovane miliardario inglese, noto per il suo eccentrico interesse per il soprannaturale, si toglie la vita in circostanze apparentemente inspiegabili, lasciando la vedova alle prese con parenti pronti ad avventarsi come rapaci sulla cospicua eredità e il protagonista, un sedicente professore di parapsicologia, a indagare privatamente, scavando nel misterioso passato dei personaggi coinvolti. Fin qui nulla di strano: si potrebbe pensare al più classico dei gialli imperniato sul tema del “complotto di famiglia”, magari con un tocco di finto paranormale, utilizzato per arricchire gli stereotipi del genere. Tuttavia Terapia mortale si discosta nettamente da questi cliché, trascinando il lettore in una vicenda dai toni cupi, quasi kafkiani, dove i protagonisti si trovano a fronteggiare situazioni di possessione ben peggiori delle classiche apparizioni di fantasmi, tipiche del tradizionale filone gotico, descritte con toni onirici e spesso disorientanti.