Non classificabili

Il fantasma di B. nei romanzi di Cordelli, Trevi, Sebaste, Piccolo (2004 – 2014)

Domenica, 04 Febbraio 2024

Berlusconi è passato dall’altra parte. Alla fine è capitato pure a lui. Un granello di polvere ha inceppato il meccanismo dello storytelling infinito. Nelle ore e nei giorni successivi alla sua scomparsa ho smesso di leggere giornali, di guardare la Tv. Avvertivo un fastidio profondo per quell’invadenza mediatica, per i funerali di Stato, eccetera. Lo dico da subito: non ho mai provato simpatia per il personaggio, non l’ho mai votato e, al solo vederlo, percepivo un senso di fastidio. Non l’ho detestato per la questione delle donnine discinte che gli giravano intorno (figurarsi, non sono un moralista), tantomeno per le accuse, pesantissime, di collusioni mafiose (non amo i complottismi e, fino a prova contraria, non mi piace pensare a un tre volte presidente del consiglio che traffica con gli stragisti) o per i mille processi in cui è incappato (per finire con mille mezzucci quasi sempre assolto, tranne una volta in cui è andato ai servizi sociali); il mio disagio è sempre stato qualcosa di inspiegabile, uno “stare sui cabassisi” a pelle, per quell’aria da smargiasso coi soldi, da piazzista col sorriso di plastica e fondotinta marrone. Poi non amo i narcisisti, i megalomani in generale.

Sono uno comune, di provincia, che si fa i fatti suoi e non rompe l’anima al prossimo. Di lui, di quel che ha fatto, detto, del suo partito e delle musichette annesse di quegli anni ’90, delle sue televisioni, non mi è mai piaciuto niente. Detestavo persino (o mi facevano paura) i folletti malsani generati dalle sue reti, i turpiloqui di Sgarbi, i borbottii incomprensibili di Costanzo, il sorriso a lama di rasoio di Funari, lui davvero con qualcosa di sulfureo e magnetico che non riuscivi a togliergli gli occhi di dosso, il gesto calcolatissimo di accendersi una sigaretta era meglio di un intero spettacolo sproloquio di Carmelo Bene. Detto questo, ora che la polvere si deposita sugli avvenimenti, mi accorgo di quanto il suo personaggio finirà di diritto nel caravan serraglio dei fantasmi italiani: Moro nella sconcia stiva della Renault rossa, il Pinelli che capitombola giù dalla questura, la riga nei capelli di Calabresi e l’imitazione chirurgica che ne fa Volontè, o ancora la figura compressa, la testa incassata senza collo, di Andreotti, giù fino al ventennio, i liberali, l’Italia risorgimentale, bla, bla, bla. Volti, posture, figure di una storia patria carica di pedanteria, pedagogismo, snobismo, misteri, rancori e inevitabile commedia.

In realtà non è vero che tutto finisce. Qualcosa rimane sempre e influisce sull’oggi molto più di quanto si pensi. Ce lo abbiamo dentro senza saperlo” scrive Filippo Ceccarelli in uno di quei libri che da soli valgono più di una laurea. Berlusconi, quindi. Mi è capitato di ritrovarlo (senza che lo cercassi) dentro alcune letture di questi mesi. Non credo siano gli unici romanzi in cui il nostro fa capolino (ne ricordo uno, bruttino, di Daniele Luttazzi), ma sono quelli di cui sono a conoscenza. Non solo. In tutti questi libri Berlusconi non è un vero e proprio personaggio, vi appare, scompare, aleggia ecco, quasi come fosse già una presenza disincarnata, catodica, piovuta da un altrove imprecisato. Ed è questa dimensione fantasma che più di ogni altro mi ha colpito. L’Italia che fa da sfondo alle sue gesta, quella schiumante, rabbiosa dei primi anni ’90, fino alle svolte sovraniste di questi ultimi anni. Le ceneri di Tangentopoli, lo stalliere mafioso, l’origine delle sue fortune, i contratti firmati in diretta tv, la vergine di Casoria, l’Ape Regina, la nipote di Mubarak, la malattia, l’eclisse del corpo, la morte (quasi) in video. Berlusconi è un bel pezzo del grande romanzo italiano di questi ultimi trent’anni, una sinistra mescolanza di spazzatura horror e sberleffi feroci. In lui però non mi riesce di vedere quella tragica grandezza che animava le maschere altrettanto feroci dei Gassman, dei Sordi, dei Manfredi, dei Tognazzi migliori.

La maschera di Berlusconi mi è sempre apparsa monotona, monocolore, finta, subdola, in ultimo, vuota. Beppe Sebaste si confronta con questo vuoto in quello che per me è il più importante romanzo della nostra contemporaneità, mi riferisco a Fallire, storia con fantasmi, autoprodotto dall’autore nel 2015. Nelle pagine di Sebaste, B. fa capolino più volte, evocato nelle opere di artisti contemporanei (persino infilato a forza in una bara con la patta slacciata), sorta di icona al negativo di un paese che sembra aver smarrito la propria voglia di salvezza. Anche lo scrittore sembra smarrito nelle sue pagine, incapace di venire a capo dell’ossessione che lo spinge a spiare voyeuristicamente l’immagine di Berlusconi sanguinante, coi denti frantumati dopo che Massimo Tartaglia l’ha colpito con una statuetta in miniature del Duomo di Milano. Fallire è un viaggio maestoso e funebre, un’autobiografia claustrofobica nella quale ho ritrovato molte delle mie ossessioni. Sebaste prova a scrivere una sorta di metahorror in cui appaiono nuove figure antropologiche del potere berlusconiano (i Flavio Briatore, i Ricucci, i furbetti del quartierino, sorta di cloni falliti del grande seduttore), cerca di dare una forma al suo materiale, ma subito fallisce di fronte a una realtà così immateriale e surreale e che cambia in continuazione; il libro si perde quasi subito per strada, tra i rivoli di private confessioni (lo spegnersi lento della madre), abbozzi di racconti, l’affannosa rincorsa di eventi e personaggi spesso attinti da un mondo cronachistico e televisivo che proprio per questo ci appaiono irreali, che non esistono, già materia per una ghost story che nessuno potrà mai raccontare (Erika De Nardo che esce di galera per una partitella di beach volley, le ombre rivoltose nelle banlieue parigine, la morte del regista Alberto Grifi, la tragedia di Garlasco, il grande seduttore che si traveste da statista, presidente operaio e riceve prostitute adolescenti nelle sue labirintiche magioni, castelli gotici in cui al posto di cripte e bare appaiono i lumini e il fracasso dei musici e la claque gaudente del nuovo principe Prospero.

Sebaste si lascia trascinare dal flusso della sua scrittura senza argini, né romanzo né saggio o entrambe le cose, si perde nei ricordi, in altri ritornanti. Moro, via Fani, le Br, specchi deformati di un paese che non sembra esserci più, che è divenuto velocemente altro, che ha ricacciato questi personaggi dentro la cantina di una casa infestata. Tutto Fallire in fondo è una casa infestata letteraria, un regno di pulsioni, morti che ritornano, finzioni e realtà che si confondono in un gioco letterario in cui ognuno di noi può vedersi riflesso. Giocare coi grandi fatti della storia, coi suoi personaggi, uscire fuori dai rassicuranti confini di una storia passata e già giudicata, ti fa correre il rischio di deragliare, di disegnare una mappa sfuocata e soggettiva, eppure viva, bruciante, a tratti urticante. Sebaste si butta a capofitto nell’impresa e sembra davvero fregarsene dell’eventuale fallimento dell’opera. Ciò che mi ha colpito di più è la scelta di fondo di rileggere davvero il nostro presente (e la figura che ne troneggia al centro) come un ibrido tra una commedia e un horror ghignante e ludico in cui i personaggi principali paiono aver smarrito del tutto un senso del limite, tanto che poi le varie figure anche solo nominate nel libro appaiono davvero come tanti doppi, riflessi di una medesima emanazione arcana ossessionata dall’unica e definitiva ossessione di oggi, ossia quella di piacere sempre e comunque a tutti. Berlusconi incarna dentro di sé tutte le contraddizioni, le aspirazioni, le patologie, le grandezze, le manie e, soprattutto, le banalità di questo italiano. In qualche modo è una sorta di zelig multiforme, di cosa carpenteriana, mutante capace di essere tutto e il suo contrario, moralista e puttaniere, reazionario e perverso da balera, figura messianica e barzellettiere con bandana, canterino e padre della patria.

Cosa resterà di tutto questo? Resisterà qualcosa? Il trucco pesante della cipria si sgretola, si sparpaglia nelle pagine dei libri, altri libri. Tuttavia il sospetto è che manchi qualcosa e quel qualcosa è proprio lui, l’unto, il santo, chiamatelo come vi pare. Sebaste scrive un poderoso volume, parla di sé, delle sue fragilità, delle sue letture, dei suoi umori politici, insegue comparse minori del palcoscenico di Arcore, ma si ha sempre la sensazione che tutto risulti sfuocato, che la scrittura non riesca ad avvicinarsi mai all’oggetto della sua indagine. Certo Sebaste, come gli altri di cui parlerò, sconta un certo giacobismo, cosa che gli impedisce davvero di arrivare a cogliere l’essenza del fantasma di B. Essenza che sfugge a molti. Due citazioni a caso. Da Libero del 21 luglio 2023. Pupi Avati esce allo scoperto e fa una dichiarazione d’amore verso il Cavaliere defunto: “Chi mi ha affascinato follemente è stato Silvio Berlusconi. La sua sfrontatezza, un qualcosa di unico. Quando lo vidi nel ’94, quando mi apparve per la prima volta, diceva delle cose così fuori dal comune che pensai: “Finalmente qualcuno di diverso”.

Michele Serra sul Venerdì di Repubblica di quel medesimo giorno, riferendosi alla balena bianca e alla sua scomparsa scrive: “Peggio l’ipocrisia, che tutto nasconde però mantiene forma e decenza, o è peggio il suo contrario, che è aggressività spensierata, la briglia sciolta, il cattivo umore sbandierato?” Nel 2004, quando l’impero del nostro era tornato al culmine, uno scrittore anomalo come Franco Cordelli decise di confrontarsi con l’incomodo B.; dalle cantine rumorose del Beat ’72, dalla spiaggia tossica e post-umana di Castelporziano, Cordelli approda nelle nebbie milanesi, si lascia contaminare dalla figura del Cavaliere, ora novello duca. Una figura davvero in assenza. Come Sebaste che spia B. da lontano, dalle pagine dei rotocalchi, dalle immagini catodiche, ne insegue l’eco raccogliendo le parole incerte del suo regicida Tartaglia, così Cordelli insegue le opacità del personaggio. Ne Il Duca di Mantova (Rizzoli 2004) apre le danze dichiarando tutta la sua ostilità verso l’oggetto della sua indagine, soggetto multiplo (editore, politico, potente di turno) di cui teme la seduzione già postuma, immateriale. Cordelli ha già scritto un libro sullo sfaldarsi psicologico dell’ambiente socialista, ora inanella pagine quasi senza margine o direzione, parla di un film a cui lavora con Emidio Greco, si perde in seghe mentali intellettualoidi, citazioni dotte, poi torna a bomba sull’odiato Berlusconi, ci racconta di quando i genitori lo devono aver conosciuto giovanissimo su una nave da crociera mentre faceva il menestrello di belle speranze. Poi passa a fantasticare su Previti, sbriga in poche righe l’affaire della villa Casati, accenna a una sua fidanzata che sarebbe stata anche amante del Previti. Cordelli scrive come se la pagina fosse una jam session di improvvisazioni maniacali, notiziole trascurabili, voyeurismi da settimanali di cronaca e la pedanteria camuffata dello scrittore marginale che in fondo prende il Duca Berlusca come scusa per raccontare (anche se poi non lo fa, semmai lo accenna, forse nemmeno quello) un’Italia bestiale, uscita in macerie da Tangentopoli per poi riconoscersi e consegnarsi in massa al Duca. Le pagine più belle sono verso la fine, quasi buttate lì di sfuggita, quando Cordelli vede finalmente da vicino il Duca, allo stadio (così come allo stadio aveva visto anni prima Moro), attorniato da ragazzini giubilanti, lui ragazzino tra ragazzini, maglione girocollo e vestito come un uomo benestante tra altri uomini benestanti, mimetizzato da persona qualunque, vera chiave del suo successo.

In realtà il romanzo di Cordelli è una prova generale per un romanzo che non scriverà mai, 200 paginette leggere e d’occasione in cui non si fa altro (come Sebaste, ma senza il metahorror che rendeva tutto più interessante) che domandarsi come fare a scrivere un romanzo su Berlusconi, o meglio sull’Italia di Berlusconi, quella uscita da Tangentopoli, quella che si è smacchiata lanciando le monetine nel linciaggio di Craxi. Inaspettatamente la memoria dell’autore torna al ’79, al festival di poesia happening di Castelporziano, palco supplizio dove i poeti salivano uno alla volta e venivano distrutti, costretti all’afasia, all’inutilità della lettura e del gesto poetico da un pubblico febbricitante che già pareva uscito da un film post-atomico di Joe D’Amato; l’autodistruzione di Castelporziano conteneva il germe di un cambiamento profondo, il ritorno a un privato tra qualunquismo e ribellismo, nel culto drogato di una finta ricchezza da trascorrere nella sciatta banalità di una domenica pomeriggio davanti alla tv. Il duca di Mantova è un romanzo che poco racconta del berlusconismo, e credo anche poco ne abbia capito, o abbia voluto capire. Non era questo l’interesse. Cordelli e Sebaste (ma il secondo ha costruito un testo decisamente più affascinante, senza centro e nessuna periferia, come direbbe Cordelli) usano la figura di Berlusconi come uno stratagemma, una scusa, un fantasma appunto, presenza che infesta le pagine e fa parlare d’altro, divagare, in cerca di un senso che sembra essersi smarrito da subito. Ciò che mi interessa (e l’ho detto da subito) è proprio questo utilizzo della figura di B., qualcosa che rimane sempre altro, fuori dalla pagina, con cui non si fanno mai veramente i conti, o che, coi propri limiti ideologici (il moralismo e la pedanteria di sinistra) non si riesce a penetrare. Sebaste, Cordelli e poi Trevi, Piccolo sono tutti genericamente ascrivibili all’area politica della sinistra.

Meglio ha compreso del fenomeno berlusconiano (e appunto non è un romanziere) Giovanni Orsina. In due parole, ma veramente due, il cuore del berlusconismo è stato nella capacità di dire che gli italiani andavano bene così com’erano, nel minimizzare ciò che non andava. Berlusconi, per la prima volta, ha anteposto un paese reale (coi suoi limiti, difetti, le sue diffidenze nei confronti dello stato) a un paese ideale vagheggiato dagli avversari; coi suoi atteggiamenti, le corna, le barzellette ai consessi internazionali ha sdoganato l’idea che dopotutto la politica non è una cosa seria e che i politici sono persone come tutti, con le loro debolezze, vizi e peccati su cui è meglio far finta di niente. Berlusconi è piaciuto a chi si sentiva sfiduciato dalla politica, a chi era rimasto ai margini dei grandi ideali di cambiamento e partecipazione degli anni ’70, a chi era, per mille motivi, sfiduciato e senza qualcuno che potesse rappresentarlo. Più che un romanziere di sinistra si dovrebbe andare a cercare un elettore di quegli anni per sapere cosa ci vedesse nel Cav. Più facce sovrapposte di retaggi populisti, uomini qualunque, macchiette alla Alberto Sordi, rancori, paure sospinte dai rapidi cambiamenti di un mondo globalizzato che andava sgretolando la piccola imprenditoria italiana e ne disarticolava le certezze del posto fisso, ne disarticolava i partiti e lo stato, lasciando molti cittadini senza rappresentanza e difese, in balie di una moneta unica e di un futuro entusiasmante quanto incerto. Berlusconi, la sua faccia, le sue smorfie, la sua storia personale di successi (veri, presunti, non importa in questo discorso), garantiva qualcosa e lo faceva con un messaggio semplice e rassicurante. Non siete voi sbagliati. Lo sono gli altri. Lo stato, le sinistre. Chi vi dice che siete senza civismo, egoisti e individualisti solo perché ambite a un benessere e a una sicurezza per voi e i vostri figli dopo una vita di sacrifici. Berlusconi era un vero stereotipo dell’italiano medio, stereotipo che però ognuno leggeva in modo leggermente diverso, perché non vi è un unico stereotipo definitivo.

Berlusconi era uno, nessuno e centomila, così come il suo elettorato, fatto di lavoratori autonomi, impolitici, lontani anni luce dai fermenti e dalle utopie rivoluzionarie degli anni ’70. Questa cesura, questa spaccatura, questa separazione di mondi la si avverte, anche solo nella compilazione degli eventi, in una specie di rassegnazione postuma della scrittura di Cordelli e Sebaste. Comincio a leggere Qualcosa di scritto (Ponte delle Grazie 2014) di Emanuele Trevi e mi perdo subito. La figura di Laura Betti virago che sbraita, bipolare pazza, schiumante di rabbia, insulta tutti come una sorta di Sgarbi in gonnella, in particolare se la prende col povero (e giovane) Trevi. La bellezza nella scrittura di Trevi è sempre in questa sua apparente semplicità. Trevi è a suo modo interprete di una letteratura senza narrazione di finzione, libri appesi a fatti e persone osservate da vicino. Il libro (romanzo? Saggio? Confessione?) riporta le vicissitudini occorse a Trevi mentre lavorava al Fondo Pasolini, un corridoio e qualche stanza, più immancabile immondezzaio di faldoni, fogli, foto e la presenza infelice e furiosa della Betti a tiranneggiare su tutto e tutti. Dire qui, in poche righe la bellezza di questo libro mi è cosa impossibile. Le pagine in cui Trevi ci parla di Petrolio (sono quegli anni lì, i primi anni ’90, anni di manette, palazzi di giustizia, magmi populisti, clientelismi, paraculismi, un popolo viziato che credeva che tutto gli fosse dovuto, artigiani, statali, piccola e media impresa intoccabili, ognuno arroccato nei suoi feudi) ci dice alcune cose che (almeno a me) paiono preziosissime e valgono come utilissima cartina al tornasole per farsi un’idea su cosa sia oggi la letteratura (italiana e non). Petrolio, il libro postumo di Pasolini, esce per Einaudi nel ’92 e sembra un oggetto fuori dal mondo, qualcosa di ormai lontanissimo da ciò che si scrive e si legge in quei ’90; pagine piovute da un’altra dimensione che appartengono all’Italia degli anni ’70, a un mondo ancora organizzato per grandi aggregati collettivi e non ancora disciolto, liquido.

La prosa di Pasolini, dice Trevi, è ambiziosa (un romanzo costruito come un lungo frammento, con un personaggio che si sdoppia, fa l’ingegnere, mentre il suo doppio si abbandona a una vita sessuale libertina per poi sdoppiarsi ancora in una donna e abbandonarsi a un lunghissimo segmento poetico-orgiastico, poi appunti a cascata, interventi a gamba tesa dello scrittore, appunti sul potere, la politica, i malaffari di quel gorgo sfaccettato dei ’70), complessa, stratificata, tutt’altra cosa rispetto a una letteratura ormai piegata alle esigenze di mercato, al bisogno di fare un bel romanzo per scalare le classifiche, vincere qualche premio; la letteratura che trionfa dopo i ’70 è una letteratura fatta dagli editor (sempre Trevi a parlare, eh!), unicamente interessata allo storytelling, all’identificazione del lettore coi personaggi e la storia. L’editor è il vero autore occulto dei romanzi, capace di manipolare completamente il romanzo di partenza dello scrittore (interessante il riferimento al rapporto tra Carver e il suo editor tiranno Gordon Lish) per trasformarlo in altro. In Petrolio non c’è un editor, Pasolini è Pasolini, scrive quel che vuole, come vuole, non pialla la storia, non la uniforma a uno scrivere generale, non fa assomigliare la sua scrittura ad altro che alla sua, anche col rischio di apparire, in quel ’92, illeggibile, estraneo, irriconoscibile. Sono pagine che da sole bastano a farmi mettere il libro nello scaffale nobile. Trevi però non si ferma qui. Inutile dirlo, il libro esonda dello spettro cadavere insepolto di Pasolini, è già pura hauntologia alla Fabio Camilletti. E lo spiega benissimo, infilandoci in mezzo il museo romano delle anime del purgatorio, la figura ottocentesca di Vittore Jouet e la collezione di oggetti d’uso entrati in frizione, a contatto col mondo dei morti. Bruciature, calchi, cuscini, federe su cui il morto ha manifestato una specie di pressione, un lascito, una traccia, un contatto. Qualcosa di scritto esonda della presenza spettrale di Pasolini, è già uno di quei residui letterali prodotti e scritti intorno al Fondo Pasolini, a sua volta sorta di anticamera purgatoriale in cui imperversa il caronte obeso impersonato da Laura Betti. In due righe Trevi spiega la sua, la mia (forse la tua, lettore?), fascinazione per il passato, per ciò che non c’è più, per il mondo dei vivi guardato attraverso il lumicino di quello dei morti: “l’azione degli spettri è efficace in quanto si rivolge al singolo, alla sua debolezza e alla sua solitudine”. Segue una pagina in cui la Betti trascina un po’ di gente (tra cui Trevi e Bertolucci) all’Idroscalo per commemorare, tra immondizia e siringhe, il cadavere invisibile del poeta. E anche qui Trevi scrive le righe più belle della letteratura nostrana di questi ultimi vent’anni. Non ho voglia di trascriverle. È la pagina 42 a chi interessa. Bene. Quindi. Il Fondo Pasolini di Roma, Laura Betti che sbraita, gli editor e la fine della letteratura in favore della narrazione consolatoria.

E Berlusconi? È il ’94, non dimentichiamolo. Arriva. Ma questo libro è straordinario e solo nelle prime 100 pagine mi pare già bellissimo. Altro pezzo da hauntologia: Trevi accompagna (cagnolino accomodante) la pazza in un negozio di parrucche, teste di polistirolo e capelli finti duplicati dalle specchiere, con lo spettro di P.P.P. che li osserva annidato in uno dei riflessi. La sua assenza è una presenza che urla. Un altro accenno brevissimo, che vale una vita e ti apre porte nella mente. Parlando della fine degli anni ’90, del ‘900, di tutto, dello spettro di P.P.P. sempre dietro, le pagine piene di correzioni di Petrolio, quel testo indigeribile piovuto da un altrove, già troppo anche per i ’70, e ancora i manicomi di Artaud, il sadismo, il masochismo, il sesso e la mercificazione dei corpi, il potere e la musica dei Nirvana, parlando di tutto questo e di nulla, Trevi mi fa capire davvero cos’è questa hauntologia, questo andare a rimestare come un rigattiere pezzetti di passato che ormai potrebbero essere lasciati andare. Il ‘900, per le generazioni dei nati negli anni ’60 e ’70, ha un peso enorme. Tutta (nel cinema, nella letteratura, nella pittura, nella vita) quella ricchezza se n’è andata, è stata vissuta da altri; a noi, loro diretti eredi, non rimane altro che la sensazione di essere arrivati a una festa finita da un pezzo. Quello che scriviamo non è che una risposta a questa perdita, a questo dolore, a questa umiliazione. Altra pagina densissima quella in cui il nostro si reca a casa di Walter Siti, curatore rabdomantico dell’opera omnia per Mondadori di P.P.P., Siti discorre liberamente, poi Trevi perde il filo e si lascia andare a una considerazione bellissima sul fatto che Pasolini prevedeva l’omologazione di massa coi borgatari coatti che finivano per voler assomigliare ai borghesi arricchiti; Trevi invece, leggendo i romanzi di Siti, si accorge che in questi ultimi decenni è avvenuto l’esatto contrario, con la plebe a fare da modello, a diventare un esempio di imitazione per i borghesi, una sorta di contagio al contrario che smentisce una volta di più le profezie di Pier Paolo Pasolini.

Leggo questa pagina (la 103) e il medesimo giorno mi imbatto in una notizia deliziosa. Scrivo di martedì 25 luglio. Sulla prima pagina di Libero mi imbatto in un titolo ironico che riguarda Alain Elkann e una polemica sorta in seguito a un pezzo dal titolo Sul treno per Foggia con i giovani “lanzichenecchi”, scritto dal medesimo su la Repubblica. Elkann è in treno diretto verso Foggia e nella prima classe con lui ci sono alcuni esponenti trucidi di cui sopra. I giovinastri ascoltano musica, parlano a voce alta e in modo scurrile di femmine e altro. Elkann, col suo abito di lino blu, cartella di cuoio e mazzo di giornali tipo Financial Times, New York Times, Robinson di Repubblica e una copia della Recherche di Proust. Un signore di altri tempi piombato in una prima classe ormai in mano a orde di lanzichenecchi trucidi, ultimi aggiornamenti dell’umanità radioattiva di Castelporziano. Libero ha gioco facile nell’ironizzare sulla spocchia di Elkann. Stessa notizia sul fatto quotidiano ripresa nell’editoriale al vetriolo di Travaglio, sostanzialmente simile a quella di Libero. Solo il Foglio, in un pezzo ironico di fondo di Maurizio Crippa, sembra provare quasi simpatia (e meno falsità) per la ritrosia borghese di Elkann, azzimato signore di tarda élite criticato dai giornalisti di Repubblica per il suo essere fuori dal tempo. Questo gustoso episodio mi ha riportato subito alle righe di Trevi, al contagio all’incontrario di cui parla Siti. Pure io, nel leggere l’articolo, non nascondo di aver provato una sincera simpatia per un uomo coi suoi giornali, le letture internazionali, l’abito stazzonato nella gran calura, attorniato da tatuati vogliosi ormai indistinguibili tra loro, poveri o ricchi, in prima come in seconda classe.

Arriviamo a Berlusconi. Di lui in realtà c’è già molto. Se Qualcosa di scritto è, a un primo livello un racconto sul giovane Trevi e il lavoro al Fondo Pasolini con una Laura Betti ormai sul viale del tramonto, a un secondo livello è anche un corpo a corpo col testo letterario di Petrolio, con la figura del poeta ucciso che infesta i locali del Fondo e le anime di chi vi lavora, a un terzo livello è un libro sulla cesura definitiva e irrecuperabile tra noi e il mondo di Pasolini, sulla sconfitta e tumulazione del peso della letteratura e della cultura nel nostro paese. Da qui l’emergere di un altro spettro. Quello di B. Se l’oggetto di imitazione è una plebe espansa che abbraccia tutto e tutti, derelitti, pezzenti e miliardari trucidissimi, ecco che sul treno per Foggia di Elkann ci avrei visto benissimo e a suo agio il B. con bandana e abbronzatura, lui si truce accattone vestito di bianco con l’amico da bar aperitivo Vladi. 28 marzo 1994. Sera di vittoria elettorale di B. A casa della Betti, cena tra amici intellettuali romani in via Montoro. I dati snocciolano la vittoria di B. Lo sconforto dilaga sulla comitiva romana e pare di stare dentro a un film di Scola. Poche pagine che fotografano la fine di un’epoca e l’inizio del nulla. Stefano Rodotà che accartoccia un foglio e ci palleggia destramente, Enzo Siciliano gemente ogni volta che il B. con doppiopetto e scarpe col tacco appare sullo schermo. Alla fine la Betti ha letteralmente un malore e crolla su Mario Missiroli. La trasportano a braccia sul letto. In un angolo, visto solo da Trevi lo spettro di P.P.P. che pare quasi ridersela di gusto. B. è il simbolo di quello che resta (a molti di quegli intellettuali del ‘900) da vivere. Per quegli ospiti, per quel mondo, poco, davvero nulla.

Un’ultima curiosità sulla baruffa letteraria di Elkann (che è già l’evento divertente e unico della nostra kultura agostana): ai molti che hanno partecipato al linciaggio, facendo facili ironie sul razzismo del padre del proprietario di Repubblica, è sfuggito un passaggio nelle Lettere Luterane di Pasolini (le prime pagine intitolate non a caso I giovani infelici) in cui lo scrittore sintetizza tutto il suo disprezzo per i giovani del suo tempo: “I figli che ci circondano, specialmente i più giovani, gli adolescenti, sono quasi tutti dei mostri. Il loro aspetto fisico è quasi terrorizzante, e quando non terrorizzante, è fastidiosamente infelice. Orribili pelami, capigliature caricaturali, carnagioni pallide, occhi spenti. Sono maschere di qualche iniziazione barbarica, squallidamente barbarica. Oppure, sono maschere di una integrazione diligente incosciente, che non fa pietà”. Praticamente dei lanzichenecchi anzitempo! Che Alain Elkann, più che a Proust, nel suo pezzo abbia consapevolmente fatto una sorta di riscrittura satirica del pezzo di Pasolini? Se avesse scritto Elkann queste righe, oggi, magari su Libero, cosa avrebbe scritto certa intellighenzia di sinistra, penso a una Murgia, a un Saviano, Valerio?

Questo è un Paese che dice di voler risolvere gli enigmi. In realtà, se li tiene, se li coccola e ci sguazza dentro, come fossero un rassicurante Purgatorio nel quale scavarsi una nicchia: forse perché la convinzione inconfessabile è che il Purgatorio italiano non spalanca le porte del Paradiso, ma l’Inferno”. (Massimo Franco, C’era una volta Andreotti, Solferino, Milano 2019)

Per quanto Trevi abbia ragione, vi è da dire che il confronto con la letteratura degli anni ’60 e ’70 e chi scrive oggi è destinato sempre a vantaggio della prima. Tuttavia, se proprio vogliamo dirla tutta, il confronto è illegittimo, banalmente perché la letteratura non è più percepita come ai tempi di Pasolini, Volponi, Parise, Calvino, Bassani, Soldati, Luzi, Caproni, Zanzotto, Sanguineti, Garboli, Mastronardi, Berto, Flaiano, Eco. Quei letterati, oltre a vivere dentro congiunture economiche/sociali diversissime, sentivano di partecipare alla Storia, concorrevano, coi loro scritti “militanti” a proiettarsi all’interno di una coscienza culturale collettiva che andava plasmata, indirizzata, educata. L’oggi si è frantumato in una miriade di intrecci, fasi, accadimenti, avanzamenti e mutazioni, in un labirinto di messaggi contrapposti davanti ai quali (la pandemia, la crisi economica del 2008, del 2011, la guerra in Ucraina, il collasso in Afghanistan di cui nemmeno ci ricordiamo più) non è più possibile nemmeno tentare l’opera mondo, definitiva, capace di definire e riassumer il proprio tempo (Sciascia, Pasolini, Morante, a suo modo Calvino). Uno dei tratti, se proprio se ne vuole indicare uno, della letteratura contemporanea è proprio la sua debolezza, la sua minorità, uno scrivere che ha perso la sua aureola di intoccabilità, le sue comode posizioni sociali. Gli autori letterari hanno perso la loro serietà, e chi, tra loro, continua a sfoggiarla, sembra fuori tempo, stonato, appesantito da una retorica pedagogica di cui non si sente davvero più alcun bisogno. Per tornare a noi. Francesco Piccolo è, come Trevi, esponente di quel genere di autofiction in cui l’io dell’autore si inserisce nella narrazione, non più trama, plot, fiction con personaggi, ma un fluire che intreccia la piccola storia personale coi grandi accadimenti.

Il desiderio di essere come tutti (Einaudi, 2013) è proprio questo: Piccolo racconta gli anni della sua formazione, la sua famiglia, la sua Caserta, i primi amori, l’arrivo a Roma, intrecciando la scrittura con alcuni episodi della storia recente italiana; i giorni del colera, Moro, via Fani, soprattutto la figura etica di Berlinguer, l’Irpinia, poi gli anni ’90, Berlusconi appunto, Prodi. Il libro è diviso in due parti, la prima, più intima, legata alla figura del segretario del Pc Berlinguer; la seconda che ruota attorno all’avvento politico di B. Ecco, B. Come per Cordelli (ma direi che vale per tutti e 4) B. è solo un nome sulla pagina, una figura marginale che si inserisce nella vita di Piccolo e che segna uno stacco dall’infanzia, da un passato che non potrà più essere e un presente su cui non conviene avere grandi speranze. Berlusconi (come Berlinguer) finisce per diventare un termine di paragone, un simbolo dei tempi, una contrazione su cui è meglio non star troppo a pensare per non deprimersi. Piccolo, e questa è la cifra della sua scrittura, è un autore letterario (come direbbe King) serio e tra sé e i fatti, gli episodi sparsi della sua vita mette un’equale distanza; la sua scrittura scivola sopra con una ironia, una malinconia, a tratti un’amarezza che sono mescolate in parti uguali, quasi con un misurino. Alla fine l’ambizione è proprio quella del titolo, di aspirare, nel bene e nel male, ad avere una vita uguale agli altri, alle persone con cui condivide il presente lavorativo, affettivo, sociale. Piccolo ha una prosa scorrevolissima, chiara, comprensibile, giornalistica, dice e non dice, butta lì considerazioni, mezze frasi, poi arrivi alla fine, chiudi il libro e non ti ricordi nulla, non ti rimane nulla. Non c’è mai un azzardo, un’accelerazione. Tutto è raccontato come se fosse sotto una boccia di vetro, brandelli abilmente mescolati a fatti, analisi letterarie (Carver ritorna sempre in questi scrittori da scuole di scrittura), film visti con amici o fidanzate, cene, risate, il vago senso di fondo di non contare più nulla sul grande palcoscenico della Storia, di essere postumi, ininfluenti. E B? Di lui capiamo ben poco, se non che è un politico lontano dalle galassie progressiste della sinistra. Alla fin fine, sembra che la scrittura non possa penetrare l’enigma del personaggio politico. La cosa non è riuscita nemmeno al cinema (Moretti e Sorrentino su tutti l’hanno ciccato di brutto).

Allora? Meglio riandare a sfogliare uno dei libri più belli degli anni zero (forse l’unico vero equivalente delle Lettere di Pasolini e Moro), Cafonal (Mondadori 2008), con testi di Roberto D’Agostino e foto di Umberto Pizzi. Qui forse qualcosa la si capisce per davvero, centinaia di foto che ci illustrano il bel mondo dei vip tra flash, luminarie, pettegolezzi, sghignazzi volgari, ingordigia, un letterale magna magna di apparenza, baciamani, pranzi, pranzetti, aperitivi esclusivi in palazzi principeschi romani, una sfilata di colori, pellicce, scollature, tette molli, botox, labbra irreali, guance a canotto, colli raggrinziti sotto coltri di gioielli che potrebbero pure venire da un uovo di Pasqua, occhi vitrei di chi ha passato la vita a coltivare il corpo e zero la mente, un bel mondo putrido di mummie ridanciane, afrore di tomba (come solo nei fumetti porno horror della Squalo). L’era dell’acquario è andata affanculo, i poveri aboliti, quel che rimane è questa truppa patinata di italiani ricchi e maleducati, smaniosi di vivere una vita bidimensionale da settimanale patinato: Ricucci, Arbasino, puttane dell’est, Schicchi, trans, nani, Previti, Baldassarre (ve lo ricordate?), Biondi (ve lo ricordate?), Lapo, i Morante, Cuffaro (lui si, ve lo ricordate!), un Pannella psichedelico e poi lui, B, ritratto in varie pose, l’unico che pare autentico in mezzo a questa crapula falsa e ostentata, l’originale, quello a cui tutti vorrebbero tendere, senza riuscirci; con una grossa croce nelle mani, smorfioso, attorniato dalla gnocca (tra cui una giovanissima e canterina Giorgia Meloni), addormentato, solenne e funebre accanto al colonnello libico, B. appare sempre uguale, a suo agio, in perfetta coincidenza tra la maschera e l’essenza che è poi solo quella di una maschera duttile, piaciona, che non ha etica ma  l’obiettivo straripante di piacere sempre e solo a tutti. Alla fine questo è. Alla fine se ne esce disgustati, divertiti? Allegri o depressi? Come dice D’Agostino (il Petronio dei giorni nostri) tutto si riassume in una foto di Andreotti e la moglie invitati in una di queste cento, mille feste, gli sguardi severi o perduti di chi sa che il proprio tempo è scaduto per sempre, tra ballerine del ventre e il vuoto di una tavolata ingombra di posate e senza più nessuno attorno. Dice D’Agostino: “Ecco, in questo meraviglioso scatto, rubato da Pizzi c’è tutto il significato del libro. Tutto. Il passato e il presente oltraggioso di questo paese. Un paese bipolare, dove la Commedia all’Italiana continua a trionfare in un interminabile martedì grasso senza alcuna regola”. Zero partiti, solo party. Un cimitero affollato e chiassoso. Pace all’anima nostra di poveracci senza RdC, manco coi 9 euro all’ora, che poi, come spiega Prodi, sarebbero 6 netti. Non ci resta che un treno per Foggia…