Giallo

Gialli dimenticati: John Carpenter e il ’78

Venerdì, 15 Marzo 2024

I KKK classici dell’orrore sono finiti dal ’72. I Racconti di Dracula agonizzano nelle edicole tra ristampe e anonimato. Sulle rastrelliere immagino valanghe di fumetti porno horror, pocket di facile consumo per militari e viaggiatori annoiati (ma ormai anche il gotico pecoreccio ha ingolfato e Attualità Nera segna nuove rotte verso l’abisso). Per non parlare di miriadi di riviste per soli adulti, pubblicazioni che invadono letteralmente l’immaginario collettivo. In questo bailamme, altrove, in libreria, Sonzogno licenzia un romanzetto che potrebbe essere un degno epigono dei thrilling di Laura Toscano. Occhi di Laura Mars di tale H. B. Gilmour. Harriet B. Gilmour (24 novembre 1939, Brooklyn, New York – 21 giugno 2009, Cornwallville, New York) ha lavorato come copywriter, redattrice e direttore associato del marketing per la Bantam. Ha scritto libri per bambini e novellizzazione di film di successo. Gli occhi è uno di questi ed è a traino del film omonimo, scritto da John Carpenter e dallo sceneggiatore David Zelag Goodman.

In quell’ultimo spicchio di anni ’70 Carpenter è sugli scudi del thrilling. In quel ’78 scrive e dirige Halloween, ispirato dai film di Dario Argento e dalle colonne sonore innovative dei Goblin, scrive e dirige per la televisione Pericolo in agguato e butta giù pure il soggetto e la sceneggiatura di questo Laura Mars, affidato alla regia del mestierante Irving Kershner. Lasciamo il film e sfogliamo il libro, prontamente tradotto da Adriana Dall’Orto fin dall’ottobre di quello stesso anno. La trama, in spiccioli, vede una affascinante fotografa (dalle fattezze eteree, zigomi alti, palpebre dal taglio slavo) del mondo della moda. La vicenda è ambientata a New York, tra palazzi di mattoni rossi, studi fotografici ricavati tra magazzini dismessi, un’umanità anonima, vociante, imbellettata sotto le luci brutali dei riflettori.

Laura Mars è una figura interessante, perfettamente incastonata in quel periodo: le sue foto di moda sono brutali, sadiche, quasi pornografiche, con modelle amazzoni truccate da sembrar mutilate, tra riflessi fosforescenti e manichini. Attorno a Laura una sfilata di modelline ex vagabonde dure come diamanti, autisti dal passato violento, manager, ex mariti stalker e via dicendo. Laura, chissà perché, ha quasi un potere magico, riesce a connettersi con la mente (meglio sarebbe dire gli occhi) di un maniaco omicida che ammazza un po’ di ragazze del suo entourage. Moda, violenza sadica, droga, perversioni sotto la pellicola patinata della rivista (un sottobosco panico di figuri che ricorda quello losco dei fotoromanzi porno parigini con Gabriel Pontello). Laura Mars frulla bene il tutto.

Il soggetto di John Carpenter è molto più fighetto e alla moda rispetto all’asciutta (e quasi astratta) compostezza di scrittura sfoggiata in Halloween. Tuttavia la cosa intriga: siamo lontani dalle coloriture magiche e folk di Profondo Rosso, ben più vicini all’estetica raffinata e seducente che negli anni ’80 andrà componendo Brian De Palma (anche lì avremo il binomio figa + moda). L’idea di visualizzare i delitti e creare una sorta di ponte sovrannaturale tra Laura e l’assassino (uno psicopatico noiosamente e vagamente ossessionato da un senso di ordine e giustizia sociale dal sapore reazionario) ricorda molto Un sogno di sangue, il bellissimo thrilling di carta scritto da Tiziano Sclavi nel ’75; anche lì l’autore pavese ripartiva da Argento e dalla connessione che un professore liceale stabiliva con un maniaco omicida che ammazzava una a una le ex studentesse del professore, rifacendosi ad alcune pellicole del periodo. Gli occhi, le visioni, le premonizioni sono elementi basici con cui imbastire facilmente qualche trama thrilling. Nello stesso periodo aveva fatto qualcosa di simile anche Dean Koontz col suo Visioni di morte.

Harriet Gilmour ha una scrittura senza fronzoli: mescola un minimo di psicologia dei personaggi a passaggi visivi, senza rinunciare alla costruzione atmosferica di una metropoli notturna e inquieta, una dark city pulp infuriata che si agita appena oltre la soglia degli appartamenti in cui si muovono e consumano le vite dei personaggi. Laura Mars si erge come una sacerdotessa della cronaca nera, una donna bianca, ricca e sofisticata che nelle sue foto sembra trovare la giusta alchimia tra cronaca nera e pornografia della moda. La storia procede come ci si immagina, senza troppi colpi di scena, però rimane di più su carta la sensazione di un mondo fatto di cadaveri e manichini senza vita, facce gonfie di putrefazione mascherate dai cosmetici (ed eccoci tornare  ai fantocci coloratissimi di Bava, unico vero gran cerimoniere dell’inorganico fin dagli anni ’60).

Il mondo di Laura Mars è caotico e da subito brutale, una sorta di futuro distopico che cancella con un colpo di spugna tutte le utopie possibili degli anni ’70; le cose cambiano poco anche se ci si sposta nell’assolata California. In quei medesimi anni, mentre i bambini corrono verso il crepuscolo e le famiglie si credono al sicuro nelle loro casette dai giardini curati, un cacciatore notturno psicopatico si intrufola nelle case delle giovani coppiette. All’inizio si era trattato di un maniaco feticista che si intrufolava nelle dimore e sniffava le mutandine femminili, portava via qualche oggetto e bon; poi era passato presto agli stupri. Maschera sul volto, maglietta, mutande e uccello oliato. Un improbabile mostro sessuale col bisbiglio rabbioso e la bizzarra condotta sessuale.

Da Sacramento a San Francisco, fino a Santa Barbara, Ventura, Los Angeles, Orange. Nello stato di Sacramento la paura portò persino alle ronde nei quartieri e si perse la percezione di essere al sicuro nelle proprie case. Tutto era cominciato nel ’74, casi isolati, profili diversi che nel tempo sarebbero confluiti in un unico rapace violentatore, il Golden State Killer. Nel suo bellissimo libro, Dieci brutali delitti, Michelle McNamara ricostruisce lo spegnersi progressivo delle mille luci (e illusioni) dell’Era dell’Acquario, coi suoi fattoni, hippie non più giovani, tuniche, cembali e gli occhi sempre meno luccicanti, sempre più spenti dalle droghe e da una serie di sconfitte che ne avevano accorciato le utopie; nell’aria si sentiva una corrente nuova, sotterranea, qualcosa che rimestava la liberazione sessuale e faceva venire a galla un nuovo tipo di emarginato narcisista che si sarebbe nascosto alla perfezione sotto le sfavillanti luci del decennio a venire.

Torniamo in Italia: in quel ’78, faccio fatica ad immaginare un giovane con in una tasca una copia di Lotta Continua e nell’altra l’edizione Sonzogno di Laura Mars. Il romanzo della Gilmour sembra piovere da un altrove immaginario. L’Italia del ’78 è quella di Moro, delle Brigate Rosse che toccano il cielo con un dito e credono a una rivoluzione ormai prossima, una rivoluzione proletaria iniziata nel sangue e che qualcuno sogna debba finire con un fiume di liquido rosso pronto a scorrere e allagare tutto, come quello mostrato da Kubrick nel trailer enigmatico di Shining.

L’Italia del ’78 ha le sue visioni di morte, penso sempre a Moro e alla presunta e bellissima (retaggio ultimo ed estremo di quell’Italia lunare anni ’60) seduta spiritica a cui partecipa un giovane Romano Prodi; è un’Italia ancora presa dall’alleanza (impossibile) tra la Dc e il Pc, sigle oggi sconosciute a chiunque abbia più di vent’anni. L’Italia del ’78 è lontanissima dai sobborghi u(dis)topici di Halloween o dalla California reale del Golden State Killer, o ancora dalla New York già tossica e indifferente de Gli occhi di Laura Mars; l’Italia di quel ’78 ha appena aperto i manicomi, nelle sue (ultime) ore notturne senza tv sogna le prime riviste hardcore vendute nelle edicole, materiale tedesco e scandinavo di dubbia provenienza a cui si sono aggiunte originali imitazioni nostrane ad opera di originali imprenditori della figa come Francesco Cardella, Adelina Tattilo, Saro Balsamo.

Brigatisti, indiani metropolitani, centri yoga, ultimi barlumi di stragisti neri, controcultura giovanile si amalgamano in un happening che finirà (come tutto da noi) in una farsa tragica e comicissima, nei vaffanculo sbandati e deliranti di Castelporziano, dove l’unica vera veggente, l’unica vera Laura Marx in quella sbornia insurrezionale e carnevalesca risulta essere l’anonima Ragazza Cioè, disadattata vaticinante attaccata a un microfono senza aver più nulla da offrire, senza alcuna visione da mostrare. Dopo quel ’78 tutte le utopie rivoluzionarie finiranno anche da noi. Velocemente e male. Tutto avrà quel sapore da fine dei giochi, un’altra Italia, piena di piccoli televisori, gambe accavallate, garofani rossi.

La guerra totale delle Br sfumerà in un freddo agghiacciante, un rientro nella casa del padre di tanti ex militanti, o nelle lande da notte dei morti viventi di una tossicodipendenza quotidiana. Non ci saranno altre Laura Marx: il malessere, l’inquietudine e la creatività dell’universo giovanile, nel decennio successivo, perderanno consistenza, si sfilacceranno in un caleidoscopio di frammenti sospesi tra un passato che non passerà mai del tutto (per alcuni) e un futuro che altri (disperati, estremisti, balordi) non vedranno mai. 

Un’ ultima noticina senza costrutto: se tra i KKK e il libro della Gilmour ci vedo ancora delle vaghe affinità, tra quei prodotti e l’oggi non ne scorgo nessuna. Il senso dell’hauntologia in fondo è tutto qui; riscopriamo un passato prossimo verso cui (almeno alcuni di noi) proviamo fascinazione proprio perché ci appare “altro”. I prodotti culturali degli anni ’60 e ’70 hanno goduto di possibilità di progettazione oggi impensabili, in una parola, “libertà”. Guardiamo al presente, questo da dopo pandemia (rimossa velocemente), ad aiuti economici che potrebbero davvero farci ripensare a progettare un futuro. Invece siamo immersi nel paradosso di un immobilismo e di un sonnambulismo psicologico, in un nauseante politicamente corretto. L’economia che ha smesso di crescere da decenni, l’eccesso del debito che ha ingoiato tutto, le fratture profonde aperte nei primi anni ’90, tutte queste cose e mille altre hanno reso troppo complesso cominciare a costruire per davvero un futuro a misura d’uomo.

Anche la cultura ha risentito di queste incrostazioni. Non si scrive e non si scriverà più come lo si è fatto negli anni ’60 e ’70, non avremo più quella libertà, o un mercato capace di fagocitare un’editoria stratificata per tutti gli usi e i consumi. Oggi si scrive tutti nella medesima maniera, le medesime cose, i libri nascono da riunioni redazionali, i veri (non) autori sono gli editor. Progetti costruiti a tavolino, insipidi, assemblati con gli algoritmi letterari delle scuole di scrittura. Gli spettatori e i lettori di oggi sono poco interessati al racconto, hanno bisogno di stimoli veloci, situazioni destrutturate, una intossicazione comunicativa. Anche la letteratura nel XXI secolo è un orpello analogico all’interno dei media digitali, anche perché, come giustamente scrive Alberto Abruzzese nel suo ultimo saggio, la nostra cultura nazionale è, per varie ragioni, una cultura del restauro.