Horror

Pulp Pincio: hauntologia degli anni zero e di me stesso

Giovedì, 12 Ottobre 2023

Frugando sul web su Tommaso Pincio ci si può fare un’idea veloce: pragmatismo linguistico, narratore che si è formato nella cultura degli anni ’80 e ’90, che non ama entrare in contatto coi suoi lettori ed è indifferente alla sua identità o ai suoi doppi. Ancora Pincio come figura anomala del nostro panorama letterario: coetaneo dei Cannibali, con alle spalle esperienze da pittore, gallerista, traduttore. Insomma uno poco inquadrabile, un po’ come il compianto Andrea G. Pinketts, che meriterebbe prima o poi un articolo di approfondimento.

Di Tommaso Pincio non avevo letto molto. I primi lavori, poi un largo vuoto, fino ai suoi ultimi e strani libri. Ho cominciato a (ri)leggere Tommaso Pincio con Hotel a zero stelle (Laterza, 2011), un libretto all’apparenza poco impegnativo: forse saggio, raccolta di articoletti o memorial di viaggi e letture? Una nonfiction o autofiction come va di moda di questi tempi? Hotel a zero stelle è un testo fortemente autobiografico in cui l’autore ripone le sue ambizioni passate d’artista, le delusioni e una passione divorante e salvifica per la lettura e la scrittura. Ogni capitolo è una stanza immaginaria, una room letteraria di un hotel letterario, non luogo abitato dalle figure di scrittore che per l’autore sono stati importanti. Ecco allora apparire le sagome di Goffredo Parise (anche lui da giovanissimo sognava di fare il pittore), Kerouac coi suoi vagabondi mescolato a ricordi lontani degli anni ’70 coi giovani hippy dai capelli lunghi impegnati a sognare di cambiare il mondo; e ancora Orwell, la trance scritturale di Simenon coi suoi personaggi sempre in bilico sull’abisso; la depressione di David Foster Wallace, la paranoia lisergica di Philip Dick.

Tocca poi a Tommaso Landolfi, Kafka (rappresentante di un fantastico quotidiano che Pincio elegge a modello insuperabile), a Pasolini (nella cui stanza si agitano i fantasmi di Valle Giulia, gli scontri tra polizia e giovani facinorosi e la sagoma ingrigita di Burroughs che scrive contro tutte le polizie e i governi di mezzo mondo). Nella stanza 402 trova spazio l’amore per Garcìa Marquez, la lettura di Burroughs e la divertita imitazione dei consumatori d’eroina sugli autobus, fino alla caduta nella dipendenza vera e non più trasognata. La rilettura della prosa di Burroughs si mescola con la propria overdose (vera o letteraria che sia), con l’imbarazzante tracollo in un pronto soccorso romano in una delle notti più fredde dell’anno. È affascinante come Pincio mescoli la sua fascinazione per lo scrittore americano, ne ripercorra sulla pagina i vizi, la violenza e il realismo, al punto da perdere i confini tra l’essere un lettore e finire risucchiato in quelle pagine, trovarsene imprigionato come personaggio. La bellezza di Hotel a zero stelle è semplice e stratificata al medesimo tempo; Pincio costruisce una lunga confessione in cui la sua vita si riconosce attraverso i libri e gli autori che ha letto e a cui ha legato pezzi di vita. Le pagine, scorrevoli, sono dense di riferimenti, citazioni, omaggi e confessioni divertite o spaesate. La voce di Pincio è quella di qualcuno che si è perso dentro le righe di decine di libri, un’altra voce letteraria popolata di fantasmi, facce, voci, parole lanciate su un muro bianco. Libro densissimo, strano, deragliato, di difficile collocazione. La lettura di Hotel a zero stelle mi ha dato molta soddisfazione, una soddisfazione che provo raramente nel leggere un autore italiano vivente. Per certi aspetti il libro di Pincio somiglia a certe labirintiche divagazioni alla Giorgio Manganelli, altro autore senza fissa dimora perso nei paradisi e inferni delle parole.

Simili ad Hotel a zero stelle sono altri due libri indefinibili del nostro, Scrissi d’arte (2015) e Pulp Roma (2023). Pulp Roma mi ha colpito per alcune cose: l’idea di comporre un volume che raccogliesse testi differenti nati intorno agli umori, alle letture e ai ragionamenti che hanno accompagnato la scrittura di Cinacittà; uno di questi pezzi, Apocalypse mon amour è davvero intriso di hauntologia nostrana (così sintetizzata da Silvia Albertazzi su Alias: “situazioni costruite a partire da tracce del passato che arrivano a ossessionarci nel presente”); Pincio parte ricordando cosa faceva il giorno di certi disastri della storia recente come le Torri Gemelle o il rapimento Moro, poi riavvolge il nastro della memoria agli anni ’70, all’austerity petrolifera del ’73 che fa assomigliare le domeniche senz’auto a certi film distopici di allora; il ricordo cade sul bellissimo 1975: Occhi bianchi sul pianeta terra, con Charlton Heston si aggira per una Los Angeles svuotata dalla presenza umana, con lui che entrava in un cinema deserto per guardare un filmato sul festival di Woodstock. Sono pagine mirabili nella loro semplicità: legare un ricordo singolare come le domeniche di austerity del ’73 con un film visto allora al cinema e che si ricollega con l’idea di un’umanità al capolinea, il tutto trasfigurato dalla fantasia di un bambino che vorrebbe fare come Heston, entrare gratis nei cinema, nei negozi, prendere quello che gli pare e invece, dopotutto, è controllato e limitato dai suoi genitori. Pellicole e ricordi che si confondono in una sala vuota piena di fantasmi. Sempre da Pulp Roma apprendo come un giovane Pincio all’ultimo anno del liceo lavora presso uno studio di fumetti a cui venivano commissionati fumetti scollacciati, i famosi fumetti neri che negli anni ’80 ormai tracimano nel porno lurido. Pincio fa le matite per alcuni di quei lavori anonimi. Anche se l’autore non sembra serbare grande ricordo della cosa, per me è una stelletta al merito.

Facciamo un passo a lato. Perché un pezzo su Tommaso Pincio? Non è meglio occuparsi di sconosciuti scrittori da edicola degli anni ’60? Perdersi nei meandri più underground del genere che non interessano a nessuno? Forse. Tutto alla lunga stufa.

Col tempo ho capito che potevo trattare scrittori sconosciuti come fossero dei grandi, e viceversa occuparmi degli scrittori mainstream come se fossero dei mentecatti, dimenticandomi dei fiumi di carta (o clip video sul tubo) versati su di loro. In un’epoca di letteratura circostante, la scrittura e gli scrittori hanno finito per fondersi con le figure degli editori, degli editor e del mercato. Oggi i premi letterari (a partire dal più importante, lo Strega, come scrive Gianluigi Simonetti) vengono vinti da chi intercetta gusti e tendenze di un mercato editoriale che ha trasformato la macchina del romanzo contemporaneo in una forma comunicativa rassicurante, retorica e senza stile. Per la verità Gianluigi Simonetti, in un altro testo prezioso, analizza (e liquida) la letteratura contemporanea cercando però di isolare gli elementi costitutivi della prosa emersa dagli anni ’90 e negli anni zero, partendo dalla considerazione che la letteratura ha ormai perso quel peso e quella considerazione di cui godeva nel ‘900. È cambiato lo scrittore, è cambiata l’industria culturale, in sostanza è cambiato l’uso che se ne fa della letteratura, ristretta a un pubblico minoritario di lettori in cerca di svago e facile sentimentalismo.

La letteratura italiana del 2000 è narcisistica, caratterizzata da un rifiuto della psicologia (o da una fumettizzazione dell’anima), da una ibridazione dei generi e dei linguaggi e da un infantilismo di fondo che confonde ed erode il senso di realtà. Dal Duemila in avanti le narrazioni diventano sempre più extratestuali, non fiction, docudrama, reportage, il tutto mescolato allo storytelling da corsi di scrittura creativa o a narrazioni gigantesche dal taglio storico-epico, iperveloci riletture della nostra storia recente (in particolare dagli anni ’50 ad oggi). Pincio è un narratore che si forma in questo contesto e da questo contesto prende pregi e difetti. Ricordo di aver letto all’uscita il suo secondo romanzo Lo spazio sfinito e di non aver conservato nessun ricordo di quella lettura. L’ho riletto per questo pezzo e mi rendo conto che avrei potuto non farlo; si tratta di una narrazione svuotata dall’interno, ambientata negli anni ’50 americani (anni ’50 paralleli e differenti), immersa nella cultura di massa di quel paese, nei suoi miti, nella sua epica moderna; Tommaso Pincio sminuzza una storia deragliata affidandosi a dialoghi inessenziali e personaggi macchietta presi dalla cultura di allora (Marylin Monroe, Jack Kerouac, Neal Cassidy, Artur Miller, la Coca Cola vista come un ente spaziale che organizza viaggi nel vuoto dello spazio). Si potrebbe dire che Pincio ha avuto gioco facile ad imbastire una narrazione che vuole proprio denunciare uno sfinimento di tutte le narrazioni, una fine delle manipolazioni possibili dello storytelling e in effetti è così. Lo spazio sfinito allora mi parve qualcosa di nuovo, in realtà erano un centinaio di pagine paracule, con dei sublimi capitoletti che non erano altro che elenchi o pagine bianche. (Eppure proprio quelle pagine bianche o deragliate, all’apparenza più futili, sfuggivano alle maschere decolorate e di seconda mano dietro a cui l’autore si nasconde per segnalare un umore di fondo, dei sentimenti allucinatori, un bisogno reale, umano, caldo, di deriva.) La deriva del racconto, così come lo pseudonimo, sono per lo scrittore romano un sintomo di qualcosa, sicuramente una facile via per raccontarsi attraverso la sua scrittura intrisa di passato prossimo.

In fondo quel che dice Simonetti è vero, la letteratura degli anni zero è una mescolanza di mainstream e paraletteratura, di stereotipi e convenzioni in cui storia collettiva e riflussi privati si confondono facilmente. Pincio scrive di sé, del suo smarrimento, che è anche il nostro, di chi viveva in quegli anni. Con altro giudizio Andrea Cortellessa, nell’antologia La terra della prosa, parlando degli anni zero scrive di poetiche postmoderniste in cui tutto viene mescolato, in una sorta di big bang della tradizione. Erano gli anni di Berlusconi, del G8 di Genova, dell’attacco alle Torri Gemelle, della guerra in Iraq, il governo Prodi, un declino sempre più evidente della nostra economia nazionale messa in difficoltà dalla frammentazione produttiva della globalizzazione. Un decennio di crescente elusione fiscale e corruzione, fino alla crisi del debito sovrano del 2011 con nuovo aumento del nostro debito e rischio reale di bancarotta. Anni in cui, a un livello più basso, soprattutto nelle lande estreme della provincia, percepivi davvero uno sfinimento fin dentro il quotidiano; noi ragazzi di provincia ci sentivamo confinati dentro uno spazio troppo angusto, imprigionati tra poche migliaia di abitanti; avevamo gli stessi pensieri tutti i giorni, ci affannavamo dietro a impossibili vie di fuga, cullandoci nelle immagini delle televisioni e delle notizie dal mondo. Bella o brutta, la prosa letteraria di quegli anni mi assomigliava e mi parlava ben più dei paludati scrittori dell’antichità. Su quegli anni, su quelle scritture, uno come Giulio Ferroni è stato tranciante: prose veloci, scrittori che non sono più solo scrittori ma anche politici, cantanti, narcisisti da reality alla ricerca di un posto al sole. In generale potremmo dire che la letteratura degli anni zero affonda le proprie radici nei libri di scrittori esteri, che è di medio livello, che sempre più confonde prosa, poesia, saggistica.

Cosa è cambiato dopo? In questi anni? Negli anni dieci? In questo scorcio di venti?
Direi nulla. Troppi romanzi. Troppi autori. Troppi libri. Troppi editori. Troppi editor. Troppo Marketing. Troppo!

La critica giovane di questi ultimi decenni ha stilato elenchi e liste di romanzi e racconti capaci di rappresentare l’evoluzione letteraria di questi ultimi vent’anni, tuttavia mi accorgo della disparità tra gli addetti ai lavori e i presunti lettori. Chi legge oggi in Italia? Si legge? A sentire l’andamento e i rendimenti della grande editoria sembrerebbero tutte rose e fiori, poi però ti fai un giro nelle scuole e ti accorgi che i libri sono solo degli oggetti messi ad ammuffire su uno scaffale, spesso branditi come armi non convenzionali da giovani analfabeti impermeabili a un’istruzione obbligatoria che somiglia sempre più a un supplizio. Quindi? Di libri se ne stampano a valanghe. Forse si regaleranno, si useranno per abbellire il salotto? Ho il forte sospetto che il plotone di critici sostenga con recensioni omaggio gli amici ed affossi quelli che non lo sono. Se poi faccio un giro su internet è un fiorire di scuole di scrittura creativa che, a costi folli, promettono l’insegnamento della creatività. In questo mare di carta o byte si perde per strada il genere. La critica colta quasi nemmeno lo prende in considerazione per snobismo. Per sentire qualcosa sulla paraletteratura bisogna rivolgersi a gente come Santoni, Mazza Galanti, Malvestio, o a narratori come Morstabilini, Funetta, Gentili. Negli ultimi vent’anni anche la letteratura di genere ha seguito la crisi antropologica, le mutazioni di internet, le nuove inquietudini, recuperando dalle mode americane o cannibali la contestazione e lo sgretolamento delle categorie del racconto, in una fusione di stimoli e voci, di testi e linguaggi, fino ad aprirsi verso un incessante bricolage di spunti e apparizioni che hanno definitivamente dissolto la linearità del romanzo. E Pincio? Che ci azzecca? Pincio è un romanziere perfettamente inserito in quegli zero e nei discorsi letterari del nostro presente post-pandemico.

Il suo terzo romanzo, Un amore dell’altro mondo (Einaudi, 2002) l’ho letto allora, in diretta. Pubblica Einaudi Stile Libero, collana simbolo di quel periodo. L’idea di fondo è geniale: raccontare la storia di Kurt Cobain attraverso la vita immaginaria del suo amico immaginario. Anche qui tutto è preso di peso dal contesto americano, anche se si vuole raccontare una condizione giovanile in cui ci si poteva riconoscere anche noi ragazzi di provincia: personaggi depressi, adolescenti insonni in preda a paranoie antiglobaliste, instupiditi davanti alle luminescenze fantasmatiche della Tv. I personaggi del romanzo, come noi allora, continuano a pensare che possa sempre accadere qualcosa nella loro vita, anche se poi non accade mai nulla. Il tempo di Pincio è un tempo che non scorre, un presente bloccato infarcito di marchi, immagini della cultura di massa, relitti in un mondo in cui le persone non sembrano più persone ma copie, baccelli, ultracorpi che ci somigliano in tutto, solo che non provano più nessuna emozione. Ed ecco allora che l’amore salvifico che tutti aspettiamo si presenta solo sotto la forma di sister eroina, tossicodipendenza come un effetto neve di sottofondo, una letargia che rende tutto indifferente e ci fa precipitare in un coma narcolettico che è l’unica via di fuga da ogni sentimentalismo.  

La ragazza che non era lei esce nel 2005 sempre per Stile Libero e prosegue la traiettoria americana dello scrittore romano. Trecento pagine vorticanti, poco lineari, incentrate su una disadattata che si ritrova a vivere una sorta di viaggio all’indietro nel tempo, negli anni sessanta americani. Per Pincio è l’occasione per tornare nei suoi luoghi oscuri e scrivere alcune tra le sue pagine più limpide. Pincio, nella sua fuga verso un passato fatto di scappate di casa, comuni, droga, musica, hippy e paranoie varie, in realtà scrive del suo presente, fissa sulla carta un senso di smarrimento in cui ci saremmo riconosciuti in tanti e che è uno dei noccioli più profondi di quegli anni zero, almeno vissuti all’altezza di una post-adolescenza infinita:

Giusto per fare un esempio, ci sono persone che entrano in un centro commerciale, magari proprio quello dove per anni sono andate a fare la spesa e all’improvviso e senza apparente motivo, manco fosse la prima volta che spendono i loro soldi in quel posto, un prodotto clinicamente testato comincia a guardarle storto e si sentono perse. Altre persone, poi, non hanno nemmeno bisogno di andare in nessun posto. Se ne stanno a casa, sedute in poltrona, tranquille per i fatti loro, ed ecco che all’improvviso si sentono perse lo stesso. Nessuno può seriamente dirsi al riparo dalla possibilità dello smarrimento al giorno d’oggi. Si perde gente che sa il fatto suo, gente che non si meraviglia più di niente e gente che non diresti mai”. Oppure capace di scrivere brani capaci di riassumere in poche righe i contorcimenti di tre decenni densissimi: “Finiti gli anni sessanta iniziò la mesta diaspora di coloro che erano accorsi a San Francisco inseguendo sogni di pace, amore e sbomballamenti lisergici. Molti se ne andarono in orbita e non fecero più ritorno, le molte vittime degli horror trip. Altri diventarono barboni o spacciatori delinquenti o disadattati. Alcuni morirono, in Vietnam o per dose tagliata male o per mano di Charlie Manson o di un angelo dell’inferno. Altri ancora, e furono i più, semplicemente si arresero e come tanti prodighi figlioli riemersero dalla clandestinità e fecero ritorno a casa dove trovarono un sistema pronto a perdonarli, perché il sistema perdona chiunque, quantunque a modo suo. Li aspettava infatti a braccia aperte, il sistema, un sinistro sorriso stampato sul volto, il classico sorriso di chi ti guarda e pensa: “Ma che ti eri messo in testa? Dove credevi di andare? Cosa credevi di fare?

Mentre leggo Tommaso Pincio leggo anche altro. Giulio Mozzi, Le ripetizioni, edito dalla Marsilio nel 2021 pandemico. Mi pare sia pure stato tra i libri in corsa per lo Strega di quell’anno. Mozzi è uno del giro degli scrittori italiani contemporanei, uno che gode di parecchio credito. Uno tra i tanti della nostra contemporaneità. Alla fine mi rendo conto che uno vale l’altro per portare avanti un certo discorso sulle scritture di questi anni. Nelle notizie in fondo al libro Mozzi ci tiene a farci sapere che ci lavora dal 1998. Cazzo, penso. Manco mi ricordo cosa facevo io nel ’98? Poi ti leggi in un pomeriggio le 300 pagine del romanzo ed è come farsi un giro sul pianeta della letteratura odierna. La storia è quella di un tale di nome Mario, uno che come Mozzi vive di cose editoriali, che come Mozzi prende il treno, che come Mozzi legge libri, che come Mozzi vive a Padova. Costruito su capitoli-racconti orizzontali il libro è un accumulo di micro-avvenimenti, incontri casuali, scene sessuali etero e omo, elucubrazioni mentali e personaggi al limite del grottesco (più la partecipazione speciale della grande storia vista di sguincio, esempio la comparsata di Franco Freda e di alcuni accenni agli anni di piombo padovani).

Alcuni passaggi sembrano presi da un Aldo Nove senza umorismo, con spazzolini infilati nell’ano e scenette splatter che un qualunque autore di paraletteratura liquiderebbe con una alzata di spalle. Prendo un capitolo quasi a caso per farvi capire, quello di pagina 125. Mario è in treno, ascolta un disco di Brian Eno, legge un libro di Murakami e si compiace per il numero eccessivo di pagine, anche se si lamenta dell’inconsistenza di certe pagine. Poi la terza persona ci spiega come a Mario piacciano i libri senza cartonatura, più comodi da usare per chi legge prevalentemente in treno. Bene. La terza persona continua a spiegarci come a Mario piacciano i romanzi lunghi, perché nei romanzi lunghi la vita è raccontata (si presuppone, o almeno lo presuppone lui, Mario, la terza persona, Mozzi?) con particolari abbondanti; poi ci viene detto che Mario compra sempre il Manifesto e il Corriere, che continua ad ascoltare il disco di Brian Eno, che si ricorda di un articolo in cui il terrorista Mario Tuti si lamentava con Montanelli. Altre divagazioni veloci sugli anni di piombo, sul fatto che a Mario piaceva anche leggere poeti sconosciuti (un po’ come a me piace leggere di quegli scrittori insulsi da edicola degli anni ’60), oltre a leggere poesia in generale, perché la poesia lo aiuta a incrementare le proprie capacità di percezione parcellare, a percepire le cose esterne nel tempo e nello spazio, nonché a percepire se stesso nel tempo e nello spazio. Infine ci delizia ricordando i tempi in cui scriveva racconti, finché ne aveva perso il controllo, come aveva perso il controllo della sua vita (azzo, che parallelismo d’autore!). Fine del capitolo.

Di cosa ha parlato Mozzi? Di lui in treno, vaghe divagazioni sulla lettura, sui romanzi, sulla sua scrittura, echi di storia ricalcati da un pezzo di quotidiano. Frasi che si accumulano una accanto all’altra, senza un vero centro, solo un insieme alla lunga noioso di dettagli trascurabili. Tutto il romanzo è trascurabile, salvo alcuni momenti in cui l’autore sembra volerci suggerire qualcosa tra le righe. Ecco, questa cosa del percepire parcellizzato, secondo me, è una grandissima stronzata e mi ricorda perché la narrativa italiana mainstream è meglio lasciarla perdere. Mozzi, e quelli come lui, riempiono le loro pagine con frasi che alludono senza dire un cazzo, dialoghi fiume a getto, senza filtri perché fa tanto romanzo sperimentali (qualunque cosa voglia dire oggi), dettagli inessenziali che fanno tanto romanzo psicologico e vita vera (qualunque cosa voglia dire). Peccato che i personaggi del romanzo siano inesistenti e sfuocati, nomi e poco altro gettati sulla pagina (al confronto certi personaggi dei thrilling contemporanei sembrano tridimensionali). Poi ti leggi il bel saggio letterario di uno come Simonetti (uno che a differenza di Cortellessa butterebbe nel cesso metà delle scritture di oggi) e vedi che su questo romanzo di Mozzi ti dice che no, qui non siamo dalle parti di un Pincio, non siamo dalle parti dei cannibali, o di un poveraccio come Ammaniti, ma siamo nella grande letteratura. Ah, si? Peccato che Mozzi abbia, mainstream o non mainstream, tutte le caratteristiche che meno mi piacciono delle scritture di questi ultimi vent’anni. Semplici, giocate su facili effetti di ripetizioni, flussi di coscienza o dialoghi a raffica, scenette di vita inessenziali e pretenziose al medesimo tempo, personaggi che vogliono dirci qualcosa e non fanno altro che dire qualcosa sul narcisismo di chi scrive.

Che ci azzecca Mozzi in un pezzo su Pincio? Volevo stroncare Mozzi? Che me ne frega. Non faccio il critico, non lavoro in Università, non devo difendere posizioni o amici. Non ho nemici. Quel che volevo dire è che poi, certi schematismi critici non li capisco. Mozzi passa per uno dei massimi e scrive con una prosa qualunque, da quotidiano, da chiacchiera al bar. Alla fine Mozzi non mi è piaciuto? Non è questo il punto. In parte mi è anche piaciuto, perché comunque queste scritture (tutte queste scritture) le riconosco, le sento come parte di questo nostro presente, pezzi frantumati di una realtà che non si riesce più a ricomporre o riconoscere in un unico modello: l’abbassamento di certi vertici, di certa originalità, un senso di esaurimento, un impoverimento dell’oggetto libro, una standardizzazione del linguaggio e potrei andare avanti. Tuttavia è proprio questo impoverimento (di Mozzi e di tutti gli altri da trent’anni a questa parte) a interessarmi. Mi spiego: quando cercavo di scrivere, se prendevo in mano Thomas Mann mi veniva voglia di buttarmi dalla finestra insieme alla macchina da scrivere. Se leggi uno come Mozzi, o Nove, o chi volete voi, Raimo fratello e sorella, Caliceti, Culicchia, ti senti portato, dici, ma si, questa la posso imitare anch’io. Ed è così. Cazzate la storia del sembra facile, ma dietro c’è questo e quello: dietro la facilità di Aldo Nove non c’è nulla, solo la mediocrità del nostro presente, o una certa mediocrità di cui si vuole parlare. Nove è quasi come un artista concettuale, solo paraculo, come molti altri di quel periodo. Culicchia scrive come un ragazzino delle medie, frasi copia e incolla.

Ammaniti tocca il punto più basso col romanzo del premio Strega, accumulando un abbozzo che vuole più essere una sceneggiatura sciattissima che altro. Qualcuno potrebbe dirmi che anche Sclavi era così. Vero. Però aveva delle idee che per l’epoca erano pure originali. Alla fine mi accontento con poco. Mozzi recita la sua parte e la recita bene, deve portare a casa la pagnotta, chi lo biasima. Ma è grande letteratura questa? Boh, non sono io a saperlo. Di certo non capisco come certi critici liquidino qualcuno per poi incensarne un altro identico. E qui torniamo ai sospetti di cui parlavo parecchie righe sopra. Una cosa la so e la posso spiegare: perché preferisco leggere Pincio a un simil Mozzi. Perché in Pincio sento comunque stridere e convivere esigenze da mainstream col genere. Pincio riesce anche a divertirti, a concepire la letteratura come un semplice divertimento infarcito di alieni, viaggi nel tempo, città futuristiche o quel che volete voi. In Pincio sento in parte quella sincerità che sento sempre nel genere piuttosto che nelle ambizioni mainstream, buone per qualche premio letterario e basta. Ma insomma, a chi può davvero interessare e leggere trecento pagine che non sono altro che una lunga pippa su uno che legge libri, prende treni, si masturba, porta avanti tresche con amante, quasi mogli e dialoghi fiume più inconsistenti del programma politico di Forza Italia?

Gli sembrò di rivederlo in un altro film che diedero alla Tele qualche mese dopo. Si intitolava Il Sorpasso e c’era un tipo gagliardo che aveva un’Aurelia Star che poteva raggiungere la Luna in un giorno. Niente sembrava fregare a quel tipo, solo tirare al massimo i propulsori della sua navetta, impasticcarsi di Gravital, fare casino nei bar delle stazioni orbitali, rimorchiare qualche afromarziana che si accontentava di poche $telle e di un pasto mezzo scongelato in uno qualsiasi di quegli squallidi punti ristoro dello spazioporto del Mare della Tranquillità (Tommaso Pincio, M., 1996 – 1999)

A Pincio alterno un po’ di letteratura nostrana, i Raimo, Desiati, Vasta, Terranova, Trevisan, Policastro, Giordano, Trevi, Permunian e qualcun altro che manco ricordo. Poi mi capita sotto mano un bel libro dell’editore LiberAria. Si tratta di Sangue e viscere al liceo di Kathy Acker, traduzione di Claudia Durastanti, introduzione di Tiziana Lo Porto, copertina bellissima di Vincenza Peschechera. Ecco Kathy! L’avevo scoperta negli anni ’90 con un libretto uscito per SugarCo, poi un altro per la Shake, in mezzo il nulla. Le mode Avantpop, i cannibali, la riscoperta di Burroughs e Dick. Di Kathy qui da noi se n’è sempre parlato poco, ed è un peccato. Io l’avevo amata subito moltissimo, un po’ perché condividevo la sua filosofia nel rubare dai testi altrui, per cercare la propria voce. Anche io come Kathy cercavo la mia voce nei testi degli altri e nelle mie cose ne rubavo sempre dei pezzetti, li rifacevo, li nascondevo, li mescolavo. Kathy ha avuto, lo apprendo dall’introduzione della Lo Porto, una vita al limite, radicale come la sua scrittura. La cosa più bella che dice la Lo Porto per definire la scrittura della Acker è una sorta di forma per esprimere il disordine interiore, una confusione in divenire. Ed è vero, la scrittura di Kathy è viva, un flusso gospel di immagini, mozziconi di testi altrui, disegni, poesie, drammaturgie di un contemporaneo che più contemporaneo non si può. Bastano poche righe perché mi perda in questo romanzo straordinario, ben più necessario di tutte le frottole postmoderne dei Pynchon cacabraghe su cui anche Pincio cade morto di sonno. In Kathy avvertivo nella mia adolescenza un’urgenza, una furia e una disperazione espressiva che mi aveva rapito. Per molto tempo è stata uno dei miei eroi, più per il suo modo di scrivere che per quello che scriveva. Ho sempre pensato che la voce di Kathy fosse sincera, qualcosa di urticante perché vero, vissuto sulla propria pelle letteraria. E infatti nel leggere Sangue e viscere al liceo mi ritrovo con la matita consumata, interi paragrafi sottolineati, come se ancora oggi, quasi cinquantenne, mi sentissi ancora toccato nei punti giusti come un adolescente.

Dico quanto sopra, e ne scrivo, non solo per parlare di un bel libro e di una piccola coraggiosa casa editrice quasi interamente al femminile, ma proprio per sbattere la cosa in faccia a buona parte delle porcherie pubblicate dalla nostra letteratura. Kathy se ne frega delle etichette, la sua scrittura procede per frammenti e potrebbe avere al massimo grado tutti i difetti e le furberie di certa prosa sperimentale, o postmoderna. Ma non è così, perché in definitiva, oltre allo stile ciò che fa la differenza è qualcosa di impalpabile, un modo per mettere tra le righe un’urgenza espressiva che rimane viva e brilla anche ad anni di distanza, anche adesso che Kathy è morta da tanto. Le sue descrizioni impietose del Messico o dei bassifondi newyorkesi attraverso la voce di Janey, protagonista del libro, e ancora le bande di ragazzini deragliati delle periferie, fotografati con precisione chirurgica nella loro solitudine e miseria sociale; Kathy esibisce un femminismo radicale privo di qualunque ipocrisia, ama la vita, ama scopare, ama i maschi, le donne, ma non si fa illusioni perché “sta a voi ragazze, dovete essere forti. Riprendervi, siate ragazze moderne. È l’era della post-emancipazione femminile. Beh, cosa farete? Siete cresciute ormai e dovete prendervi cura di voi stesse. Nessuno vi aiuterà. Siete sole”. Seguono pagine lancinanti su aborti praticati in cliniche per pochi dollari e la rappresentazione dell’aborto come un trauma ma anche una rivendicazione del proprio dolore e della propria solitudine. Sangue e viscere è un’odissea selvaggia (compaiono pure Genet e il presidente Carter) sull’educazione sessuale e l’emancipazione di una donna degli anni ’70, per certi versi più vicina a certi film hardcore di allora che all’anarchismo reazionario di Burroughs. Leggere Kathy, dopo lo Strega Desiati, è stato come risvegliarsi da un coma; sono partito da Pincio per rendermi conto di quanto le letture che l’hanno nutrito non sono le mie; detesto Dick (puerile e sciatto nella scrittura), trovo Pynchon illeggibile e noioso e così tutti i postmoderni adorati dalla minimum fax; per dire: molto meglio leggere il divertente e sofferto Day Hospital di Valerio Evangelisti, dove - accanto a una descrizione semplice e precisa di una stanza per la chemioterapia coi sui aghi, medicine, lamenti - si suggerisce un sentimento quotidiano di sopravvivenza e cura che non ho trovato nella somma di tutti i nomi e autori italioti che ho nominato fin qui.

Quasi di fronte al civico 145 di via Tasso, oggi ingresso del Museo Storico della Liberazione di Roma, si affaccia la finestra della casa di un altro amico, una casa di piccolezza ormai leggendaria, tanto più che M.C., in arte Tommaso Pincio, non ama particolarmente le visite, e vivendo al primo piano può conversare facilmente alla finestra, sporgendosi un poco come il cucù di un orologio artigianale. Lo si può spesso incontrare mentre arranca verso casa in bicicletta su per la via Boiardo- sembra sempre sul punto di rimanerci stecchito, e invece ce la fa sempre. Nella sua minuscola casa M.C., in arte Tommaso Pincio, e Bart Simpson sul citofono, a ulteriore confusione dei suoi simili… (Emanuele Trevi, Senza verso, 2004)

Cinacittà, Einaudi Stile Libero Big, 2008. Solo adesso mi accorgo che il romanzo si intitola Cinacittà e non Cinecittà. L’avrò tenuto in mano centinaia di volte ma non me n’ero mai accorto, forse sarà colpa del bel dipinto in copertina dell’autore. Comunque Cinacittà è un romanzo lungo pieno di apocalissi climatiche, strane febbri che sembrano anticipare la spossatezza del post-covid, un protagonista che ancora una volta sembra ricalcato sullo scrittore e che si aggira in una Roma fantasmatica che pare uscita da un Guido Morselli pop. Il desiderio di scomparire nelle vampe di calore, un impianto efficace da romanzo distopico, i fantasmi e le ossessioni dello scrittore (dal fantasma di Cobain, a quelli del sesso e delle dipendenze), oltre ad alcune efficacissime pagine in cui si riaffaccia la storia patria dei primi anni ’90 con la figura di Craxi e le monetine lanciate davanti all’Hotel Raphael, ennesimo hotel popolato di presenze che appare nella letteratura del nostro. Cinacittà è soprattutto il romanzo in cui Pincio smette di nascondersi dietro alle mode e i miti dall’immaginario americano e li sostituisce (almeno in parte) con un affresco originale di una Roma alla De Chirico. Poi i difetti ci sono sempre, la lunghezza eccessiva, la sensazione di tirarla per le lunghe, tanto che il racconto di partenza contenuto in Pulp Roma poteva già dire tutto; rimangono dei passaggi che più di tutto sembrano sintetizzare un certo mood, un modo di vivere l’adolescenza, anzi la tarda adolescenza in quei primi anni zero. Frasi in cui in molti di quella generazione potremmo rispecchiarci: “Quale orrore! Mi era stato appena offerto un lavoro. Ormai mi sentivo un individuo fondato sulla disoccupazione

Il lavoro, già. Lo spauracchio, il vero uomo nero per chi, come me, si è affacciato a quella soglia in piena precarizzazione. Col mio amico Daniele leggevamo le indagini sociali di Curcio sul lavoro nei grandi magazzini. L’azienda totale, sorta di nuovo lager del XXI secolo popolato di disperati costretti a sopportare di tutto per ore e ore, impasticcati di qualunque tipo di psicofarmaco per resistere e non scivolare nella follia. I racconti di tanti amici che lavoravano nelle ultime fabbriche vercellesi, o nei magazzini, racconti che ti facevano venire una fifa blu. Il lavoro era un buco nero che ingoiava le nostre anime. Ognuno di noi, in modi diversi e fantasiosi, cercava strade alternative, prolungava all’inverosimile gli studi, partiva per lunghi viaggi, cercava miracolose eredità. Alla fine però capitolavamo uno dopo l’altro e invidiavamo chi riusciva almeno a conservare un poco di tempo libero. Di mio sapevo che non sarei mai riuscito a trasformare le mie passioni in un lavoro, non ne avevo il carattere, forse nemmeno le capacità. Troppo incostante. Leggere e scrivere sono cose che mi piacciono proprio perché nessuno mi dice come le devo fare; finite le mie ore a scuola non avrei voglia di sciropparmi editor o altri, mercanteggiare e consumare energie di cui non dispongo. In fondo sono sempre stato un autodidatta e l’unica volta in cui ho messo piede a un corso di scrittura creativa sono scappato a gambe levate dopo la prima lezione. Ho “imparato a scrivere” leggendo quel che mi pareva, condividendo esperienze con un mio amico che aveva velleità scritturali e mi faceva leggere i suoi racconti. Ho imparato di più da lui che da tutti gli altri insieme.

La povertà non era il mio habitat naturale. Dice: potresti astenerti dalla birra ghiacciata, tanto per cominciare

La povertà, ecco l’altro fantasma, una povertà che noi figli degli anni ’90 e 0 non avevamo nemmeno visto in cartolina. Nella mia provincia depressa si aggiravano ancora pochi pazzi, figure macilente che avrebbero fatto la felicità di Foucault. Io e la mia cricca eravamo gente della classe media, figli di genitori che erano nati nel boom, avevano vissuto l’Italia migliore. Ora a noi toccavano gli avanzi, vero, ma eravamo così ben pasciuti che comunque non ci saremmo nemmeno accorti di qualche differenza. Bene o male, tra me e i miei amici dell’epoca non ricordo differenze sostanziali. Avevamo tutti le stesse possibilità, le stesse occasioni, non ci mancava nulla, solo la voglia di fare sacrifici, di uscire dai confort di una adolescenza che non voleva finire mai.

Se mi girano avrei potuto metterla addirittura incinta, facendo il padre di famiglia

La famiglia era quella che ci era stata data alla nascita, di farne una nostra non ci pensavamo; qualcuno, i più malinconici, magari in certe serate con troppe birre ghiacciate, finiva per commiserarsi, per immaginare mondi possibili, vie di fuga insperate accanto a donne comprensive che ci avrebbero amato per sempre. Ma si trattava solo di momenti transitori, allucinazioni o provocazioni, né più né meno come nella frase del Pincio. Mi ero segnato altre frasi, ma credo di essermi fatto capire. Quel che ritrovo in Pincio, in questo suo romanzo come in altri di quel periodo, è una certa difficoltà ad affrontare la vita, non a vivere in sé, ma proprio nell’affrontarla, nel tirarci fuori qualcosa, avere un orizzonte, degli obiettivi anche abbastanza terra terra. Se ripenso al me stesso di allora potrei sembrare un personaggio di Cinacittà, meglio dello Spazio sfinito. Certo c’era chi lavorava, chi si era affrancato dalla famiglia, chi era scappato da Vercelli, era andato avanti. C’era e non erano pochi. Però ho sempre avuto la sensazione che anche loro alla fin fine non siano andati tanto lontani. Chi scappava o provava ad uscire lo faceva soltanto per non finire in una cella imbottita o per non ammazzare qualcuno. Chi si adattava, chi sopravviveva lo faceva perché impastava se stesso nell’ambiente circostante, finiva per lasciarsi scorrere nel sangue tutto il marciume decomposto e l’indolenza della città, diventava né morto né vivo, o come ha scritto il mio amico Daniele prigioniero di una pianura dagli immobili destini.

Con Il dono di saper vivere (Einaudi 2018) Pincio sembra volersi lasciare alle spalle molte cose di quegli anni 0. C’è sempre Roma sullo sfondo, l’autore che a un certo punto fa capolino tra le pagine e interrompe la narrazione di fiction con cui si aprono le prime 90 pagine (una storia fumosa e poco interessante su un tizio in carcere, una situazione che riprende qualcosa di Cinacittà, il lavoro nella galleria d’arte, l’ossessione per la figura del Caravaggio). La sensazione di fondo è sempre quella che si sia dissipato qualcosa, una generazione fragile senza direzione che ora si ritrova adulta e ha la certezza di non aver combinato nulla. Nell’inversione a U del romanzo, avviene qualcosa d’inaspettato e interessante, una confessione sulla scrittura e sui suoi fantasmi che riaccende davvero l’interesse. Pincio mescola una sorta di saggio sul Merisi, spiegando i motivi per cui la fosca figura del Caravaggio gli è servita per galleggiare in un mondo non suo come quello delle gallerie d’arte dove ha lavorato. La confessione dello scrittore romano ricapitola cose già dette e scritte altrove, ma qui il materiale autobiografico trova una sua forma quasi definitiva, si amalgama e confonde col racconto reale e quello d’invenzione. Non c’è quasi più spazio per le distopie, la fantascienza americana, i fumetti: Pincio libera i suoi personaggi dal fardello di raccontare al posto suo una storia; l’autore senza un nome nascosto sotto pseudonimi e lavori di facciata si lascia andare a un flusso narrativo ormai indistinguibile e indefinibile. Molla il libro che stava scrivendo (e che noi abbiamo letto fino a un certo punto) e si abbandona ai ricordi della Roma anni ’80 e ’90, alla galleria umida e marcescente in cui consuma vent’anni della sua vita, sentendosi quasi come il protagonista del Deserto dei Tartari. Alla fine Pincio continua a raccontare di sé, di quello smarrimento generazionale che molti di noi hanno vissuto sulla propria pelle, sciogliendo i fantasmi dell’infanzia dentro agli abissi e alle incertezze della vita adulta.

Diario di un’estate marziana (Giulio Perrone 2022) mi pare il suo libro più bello, in linea con le scritture uscite fiori dopo l’Hotel a zero stelle. Diario è un omaggio a Ennio Flaiano e non solo; la voce di Pincio somiglia da subito a quella di un sopravvissuto, qualcuno che si aggira in un paesaggio estivo fatto di macerie e scorci dell’EUR che rievocano l’immaginario ucronico dell’Ultimo uomo sulla terra. Il vero compagno di strada è appunto Flaiano, rievocato attraverso i suoi scritti come un altro irregolare della nostra letteratura contemporanea. Li lega soprattutto la pigrizia, il sentirsi non meritevoli, lo sperperare le proprie pagine scrivendo appunti frantumati, fogli sparsi non più legati tra loro da narrazioni o colpi di scena. Pincio insegue Flaiano e si perde nelle sue divagazioni e ricordi personali, muovendosi sullo sfondo di una Roma mai così metafisica, riconoscendosi in pieno nei pensieri notturni dell’altro. Con Diario Pincio liquida tutti i modelli precedenti e decostruendo Flaiano decostruisce se stesso, libera la propria voliera letteraria colma di fantasmi malinconici (qui fanno la loro comparsa l’edicola del padre, i cinemini di terza categoria degli anni ’70, Tomas Milian, Fellini e gli altri spettri che gravitavano attorno alla dolce vita di via Veneto, oltre a un redivivo Vitaliano Trevisan). In conclusione anche Pincio si accorge di come quel tempo sia passato per sempre e di come oggi la letteratura abbia perso per sempre quel peso e quella considerazione di cui godeva. Alla fine mi accorgo che quel che mi accomuna a Pincio è quello che accomuna lui a gente come Flaiano, Buzzati o Brancati, “una malinconia generazionale per così dire, quella di chi ha avuto i vent’anni in un tempo buio e stupido e ha cominciato a vivere soltanto nella mezza età.