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Poesia visiva e collage dagli anni ’60 e ‘70

Venerdì, 31 Marzo 2023

Mi sono accorto che su Mattatoio n.5 non si è quasi mai parlato di poesia. Nulla di strano, la poesia la scrive chiunque ma non la legge nessuno - tuttavia mi colpiva questa assenza, visto che lo stesso "nostro" Max Boschini ne ha scritta, per l'editore Miraggi di Torino. Personalmente ho avuto un rapporto incostante e di rimozione con la scrittura in versi; ho attraversato lunghi tratti della mia esperienza di lettore senza leggerne un rigo, alternando brevi periodi febbricitanti in cui credo di aver letto tutto, seguiti da altri lunghissimi decenni di assoluta repulsione.

Della poesia mi interessa poco la struttura, gli endecasillabi, le figure retoriche, insomma tutto quello che fa sbavare il poeta in erba universitario. Ho sempre amato la poesia contemporanea, diciamo da Pavese in giù, con una particolare predilezione (come in tutti gli altri campi culturali) per gli anni ’60 e ’70. Inevitabile (vista la mia educazione da autodidatta) la folgorazione per le neo-avanguardie nostrane di quei decenni, in particolare per il Gruppo 63 e le figure di Balestrini, Spatola, Sanguineti, Giuliani, Porta.

Conoscevo poco o nulla di un’altra forma di poesia sviluppata in quegli anni. Per caso, riprendendo in mano certe letture, mettendomi a quasi cinquant’anni suonati a scrivere per la prima volta in versi, mi sono imbattuto nella poesia visiva di allora. Poesia visiva, scrittura visuale, molte sono le definizioni, molte le forme sperimentate, accomunate dalla combinazione di scrittura e di figure di un’arte (povera) che utilizza collage e assemblaggi di materiali molto differenti. Volendo si potrebbero far risalire le origini della poesia visiva ai futuristi italiani, ai loro manifesti pieni di proclami ed effervescenze tipografiche, o ai vari Mallarmé, Apollinaire, Tzara, Ball. In Italia però la visual poetry (com’è conosciuta all’estero) assiste a una straordinaria fioritura a partire dagli anni ’60, in un momento di alta temperatura culturale e politica a fare da sfondo, oltre che di una rinnovata ricerca nell’arte grafica ed editoriale. Non è infatti da escludere che la poesia visiva tragga alimento fertile anche dai manifesti e dalla comunicazione politica di allora; in questo senso sono interessanti le riflessioni di William Gambetta sul manifesto come macchina narrativa che già incorpora testo e immagine, miscelandoli in modo inedito e originale.

La nuova grafica pop americana, il fumetto e le riviste underground d’oltreoceano, il disegno satirico, il fotomontaggio, la capacità di condensare in un’immagine un racconto o un messaggio fanno del manifesto (penso anche a quello cinematografico, ai flani, alle fotobuste, ai fotofilm) un prodotto nuovo con finalità commerciali rivolto a un pubblico vasto e popolare che unisce masse operaie, ceto medio e borghesia. Se il manifesto è un prodotto industriale e serializzato, la poesia visiva si inserisce in quel contesto ma ne fa una sua rielaborazione critica e consapevole. Come già i dadaisti e poi il Gruppo 63, le varie voci della poesia visiva italiana degli anni ’60 lavorano su una comunicazione sghemba e straniante, in una commistione di distruzione e rielaborazione culturale. Un anno chiave per tastare la temperatura culturale di quel periodo è sicuramente il ’63, attraversato dall’omicidio Kennedy, i lavori del Concilio Vaticano II e una rivoluzione artistica che passa dalla Pop Art americana e arriva a vari gruppi artistici che pongono l’attenzione sul rapporto tra arte, poesia e le forme più avanzate della comunicazione di massa. Ecco allora il Gruppo 70 a Firenze, il Gruppo 63 maggiormente indirizzato verso l’ambito letterario e critico, il Gruppo Uno a Roma o il Gruppo del Cenobio a Milano, oltre ai nuovi accenti pop di artisti dirompenti come Mimmo Rotella, Tano Festa, Franco Angeli, accomunati da sguardi nuovi sulle immagini della metropoli, delle pubblicità e dei giornali.

Già il Gruppo 63 praticava il montaggio delle stringhe testuali cercando contaminazioni che facessero uscire dalle asfittiche pagine di un libro (penso al lavoro visivo di Balestrini, al latino abnorme di Emilio Villa, ai collage di Antonio Porta, al sodalizio sonoro di Sanguineti con Luciano Berio per Laborintus II e prima per Paesaggio). Nel lavoro incessante di montaggio e smontaggio di Balestrini è possibile scorgere questa ricerca per una fuga dai limiti della pagina: in alcuni collage degli anni ’60 l’autore prepara la pagina come una tela, fatta di campiture compatte su cui stendere ritagli da quotidiani o settimanali come Epoca o Tempo. In quei lavori appare chiaro l’aspirazione di muoversi in uno spazio mediano tra quello del pittore e del poeta, con l’intento di aprirsi a una lettura molteplice in cui l’occhio del lettore può spaziare in tutte le direzioni possibili, rompendo la linearità orizzontale della lettura tradizionale a favore di una visione grafica e materica del tutto nuova.

Già la grafica e la comunicazione para-testuale di una collana d’avanguardia come Le Comete della Feltrinelli documentavano quanto di più nuovo e di più vivo si muoveva sulla scena europea di quei ruggenti sixties. E’ un critico come Andrea Cortellessa a rintracciare come costante della poesia moderna il bisogno di fuggire dai limiti fisici del libro, di abusare della costrizione della pagina tipografica, proiettando la scrittura in direzioni veramente nuove (in questo si potrebbe pensare anche alla poesia sonora su nastro magnetico), oltre ad avere un rapporto compulsivo e paradigmatico coi giornali, le didascalie e le pubblicità del boom economico (Cortellessa rileva in questo le similitudini con un autore come Warhol, a sua volta attratto dalle notizie dei giornali). Certo il terreno è fecondo in quegli anni di trasformazione economica e sociale dell’Italia: il boom è la vera benzina per l’arte verbo-visuale degli artisti di quella generazione. Negli scatti, nei fotogrammi di allora è facile rintracciare una frenesia nuova per le strade, scorci di colori e nuova umanità, una vita quotidiana più dinamica, con un contesto urbano che andava cambiando velocemente, restituendo l’immagine di una modernizzazione ormai non più rinviabile.

La densità delle automobili, lo sviluppo delle autostrade su cui viaggiano i sogni di riscatto e promozione sociale di molti italiani. La televisione, nuovi volti, personaggi pubblici, il divismo all’italiana, le riviste di costume, le mode e la musica giovanile importata; il miracolo economico invade i luoghi della vita pubblica alimentando i bisogni e le aspirazioni di nuovi gruppi sociali. Il progresso stride con le sacche di arretratezza e con l’immobilismo politico, alimentando un conflitto sociale che coinvolgerà le scuole, le università, le fabbriche, la famiglia e la politica. Gli anni ’60 e ’70 hanno lasciato una traccia profonda nella storia del nostro paese, anche perché in quei decenni abbiamo assistito a un dinamismo sociale ed economico che oggi appare irripetibile e irrimediabilmente perduto. Quella società capitalistica in trasformazione, pur con le sue crisi, ha saputo fare grandi passi in avanti sui diritti civili, il divorzio, l’aborto, la sessualità, l’emancipazione della donna, la giustizia e l’informazione. Questo immaginario nazionale di identità collettiva, prima della ricerca di un nuovo equilibrio alla fine dei ’70, è al centro della ricerca e del corpo a corpo che la poesia visiva ingaggia con quei linguaggi e con quella società industriale. Gente come Eugenio Miccini, Lamberto Pignotti, Sarenco, Balestrini, Lucia Marcucci, Adriano Spatola, Mirella Bentivoglio lavorano sulle contraddizioni interne di quella società, manipolando gli slogan pubblicitari, i fumetti, le immagini della moda, arrivando persino a coltivare la calligrafia manuale e le sgrammaticature come esempio di linguaggi non ancora alienati.

I contenuti e le ricerche di quegli autori si muovono nella medesima direzioni delle trasformazioni sociali di quei decenni, ragionando sul retaggio di una società ancora troppo patriarcale e perbenista, sulla questione della donna come oggetto succube del desiderio maschile (Ketty La Rocca, Anna Boschi, Lucia Marcucci), sulla temperatura politica del tempo, sempre più accesa dopo la bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura del ’69 (Nanni Balestrini, Lamberto Pignotti, Luciano Ori) e una critica all’imperialismo americano, alle istituzioni scolastiche obsolete (Mirella Bentivoglio, Eugenio Miccini). Le trasformazioni del paese, le sue contraddizioni, i nuovi consumi e costumi si ritrovano nei collage di riviste e giornali di questi poeti verbo-visivi come in una sorta di documentazione alternativa e creativa della storiografia recente (Lucia Marcucci, Pignotti, Stelio Maria Martini, Arrigo Lora Totino).

Il clima culturale di quei decenni fu indispensabile insomma per la fioritura di linguaggi e autori differenti interessati da vicino a un rinnovamento della lingua e del linguaggio senza rinunciare al pastiche satirico, all’ironia nel decontestualizzare i materiali verbali e visivi presi a prestito senza distinzioni per la tradizione alta e quella di consumo. Tuttavia nelle disparate ricerche verbo-visuale non manca mai il bisogno di ricorrere all’importanza della parola, di parole sporcate non sempre riconoscibili, alla costruzione di un nuovo tipo di testo condensato, forse adatto a una lettura silenziosa fatta di echi mentali. Un terreno fertile in cui sconfinare tra poesia visiva, concreta, sonora, happening e libertà musicali: riviste specializzate e periodici culturali come Domus, Marcatré, NAC, Geiger, pronti a documentare un quadro d’insieme mobilissimo e fertile di iniziative ed eventi come quello fondativo di Fiumalbo (1967 – 1968), rassegna organizzata sull’Appennino modenese da vari artisti e poeti sperimentali tra cui una figura gigantesca come quella di Adriano Spatola; a Fiumalbo le pratiche artistiche degli anni Sessanta e i poemi murali trovano libera espressione in una cornice urbana marginale composta da un pubblico ampio e differenziato che si trova davanti un’aggressione di manifesti, scritte murali, bandiere colorate, interventi plastici di ogni tipo sparsi lungo le strade del paese, i selciati, i prati, i muri, in ogni angolo, in un esperimento di poesia totale che non ha precedenti in Italia.

Fiumalbo non è la sola, nel giro di poco arriva l’esperimento altrettanto singolare di Anfo (1968) a Brescia, anche qui una decina di giorni espositivi con l’arrivo di artisti italiani e stranieri che giocano con musica elettronica, film, happening, galleggianti sospesi in aria, striscioni poetici al posto dei segnali stradali. Segue di lì a poco un’altra rassegna a San Giovanni Valdarno (1968), accesa soprattutto da un happening folgorante ad opera del gruppo fiorentino degli UFO, autori di uno spettacolo improvvisato che coinvolge l’intero paese e mescola l’universo della moda con quello del fumetto, della poesia e di un erotismo ironico e delirante (al punto da attirarsi gli strali locali del Movimento giovanile della DC). Esperimenti e manifestazioni che godono di una libertà inimmaginabile che, subito dopo la data del 12 dicembre del ’69, con lo scoppio della bomba di Milano, sembra scomparsa; la piazza e gli spazi pubblici si tingono di toni cupi e drammatici, tanto che il clima utopico e solidale del ’68 sembra scadere nel clichè plumbeo della tensione. Ciò che colpisce infatti è come, con l’esaurirsi di quelle temperature culturali, la poesia visiva, in generale la ricerca sperimentale, si esaurisca, entrando in una fase agonica o carsica; l’esaurirsi delle utopie, di quelle spinte e di quella critica creativa al potere e alla comunicazione non sembra più trovare un posto nel mondo odierno.

Che spazio potrebbe avere oggi una poesia visiva antiautoritaria, ironica, giocosa e politicamente sovversiva? Avrebbe ancora un senso o apparirebbe sbiadita e appannata? Lo stesso Balestrini, in un’introduzione del 2001, nel rivolgersi con sarcasmo al proprio lettore, oltre a demolire liquidare l’industria culturale come un lucroso business, invitava con piglio no-global a prendere in mano un sasso e scagliarlo contro una banca; il risultato era quello di un’ironia e di una visione antiglobalista ormai fuori dal tempo, di un arroccarsi su posizioni e visioni del mondo e dell’economia che non hanno saputo aggiornarsi e rintracciare all’interno delle molteplici trasformazioni degli stati liberali anche un’ampia gamma di protezioni sociali ed economiche a cui tutti possiamo accedere facilmente. Il nostro presente è molto diverso da quei decenni, abitato da altre paure: l’ombra ormai in rimozione della pandemia, i venti di guerra  dall’Ucraina e ancora democrazie sempre più personalizzate e fragili o, per rimanere all’Italia, nuove destre al potere che coltivano immaginari altrettanto datati di una società patriarcale e sessista. Probabilmente la poesia visiva oggi vive sui social, nei cassetti chiusi di qualche illustre sconosciuto che rimane sottotraccia. In conclusione, consiglio un bel libro di qualche anno fa della Fantagraphic Books “The last Vispo Anthology” un’antologia di poesia visiva italiana e straniera dal 1998 al 2008.