Misteri d'Italia

Le pietre parlano: dannunzianesimo nella Bassa

Sabato, 28 Ottobre 2023

Dieci anni fa nasceva Mattatoio n. 5, da un incontro fortuito tra cercatori di libri e di storie. Ci eravamo messi sulle tracce di Emilio de Rossignoli, di cui all’epoca si sapeva pochissimo; l’avevamo cercato nei suoi luoghi, trovato al cimitero di Lambrate e scoperto su di lui tante altre cose che si possono leggere nel libro che gli abbiamo dedicato.

A proposito del Conte vampirologo, ricordo che sta per scadere la concessione per la sua sepoltura al cimitero di Lambrate: si può forse segnalare al Comune di Milano che si tratta di un artista? Vogliamo fare una raccolta di fondi per rinnovarla? Chiedo aiuto e idee a chi è più bravo, socievole e intraprendente di me.

Per augurare buon compleanno a Mattatoio parlerò sì di libri perduti, ma non per consigliare di leggerli: in questo caso, infatti, sono brutti. La storia che racconterò, invece, è interessante, ed è un omaggio alla curiosità, alla passione per l’eccentrico e il bizzarro, a quell’amore per lo scandaglio che credo rappresenti lo spirito più puro di autori e lettori di Mattatoio.

In vicolo Santa Marta a Vailate, un paese della Bassa tra le province di Bergamo e Cremona, c’è l’ingresso di quella che in passato era una villa, ora trasformata in condominio. Il visitatore è accolto da un arco con una scritta in caratteri greci, apparentemente la citazione di un frammento del filosofo greco Eraclito, come indica l’attribuzione in calce:

vicolo Santa Marta a Vailate  

Se avete studiato il greco anche solo al liceo, provate a leggerla: rimarrete disorientati e vi accorgerete che non si tratta di greco antico. Infatti, è dialetto lombardo scritto in caratteri greci:

A CHI GHE PERTOCCA (“A chi interessa”)

E mì gh’hoo faa vedè ciâr e patent,
Che in la piccola vall di mè culatt
Ghe foo stà tutt el mond comodament.

E io gli ho fatto vedere chiaro e tondo
che nella piccola valle del mio culo
ci faccio stare tutto il mondo comodamente.

Sono versi tratti da un sonetto del poeta milanese Carlo Porta:

Gh’è al mond di cristian tant ostinaa
che metten eresij fina in la fed,
gent che se i coss no hin pù che spiegaa
e ciar come del dì no i voeuren cred.

Deffatt l’oltrer me n’è giust capitaa
vun che fors l’avarav anmò de zed,
se a bagn maria no l’avess tiraa
cont on bon paragon dent in la red.

Lu el sostegneva che no gh’era el piatt
de fà stà in carna e oss tucc i vivent
unii insemma in la vall de Giosafatt,

e mì gh’hoo faa vedè ciar e patent
che in la piccola vall di mee culatt
ghe foo stà tutt el mond comodament.

È un esempio della vena satirica di Porta, all’epoca (gli anni dieci dell’Ottocento) apprezzato anche dal clero illuminato nel suo mettere alla gogna il bigottismo ignorante. In questi versi, infatti, il bersaglio sono quei cristiani sempliciotti e privi d’immaginazione che vorrebbero spiegazioni razionali per ogni cosa. A uno di questi, che sostiene l’impossibilità di starci tutti quanti nella “valle di Giosafat” dopo il Giudizio universale e la resurrezione dei corpi, il poeta risponde che invece è possibile, eccome: basta vedere che nel proprio deretano lui ci fa stare tutto il mondo.

Chi mai avrà voluto accogliere i suoi ospiti con questi versi in un piccolo paese agricolo dove probabilmente la maggior parte degli abitanti era più simile al fedele sempliciotto che al poeta illuminista Carlo Porta? «A chi interessa» e chi è in grado di decifrarla?
Anche «Eraclito XVI» è una burla per dotti: l’attribuzione al filosofo presocratico più oscuro di tutti dichiara subito, enigmisticamente, che si tratta di una specie di indovinello. Quanto al numero, il significato del vero frammento XVI di Eraclito nell’edizione canonica (Diels-Krantz, degli anni Trenta) non aiuta. Forse l’artefice della scritta leggeva un’edizione precedente?
Si possono fare solo ipotesi: la mia, in mancanza di altri appigli, tralascia la pista di Eraclito e cavalca la trivialità dello scherzo. Il 16, nella Smorfia, è il culo: del resto, anche se la Smorfia non è nella cultura popolare del Nord Italia, qui abbiamo certamente a che fare con una persona dalla cultura ampia.
Il senso generale sembra: “se non ti interessa e se non sai decifrare l’enigma, non sei degno di entrare”. Un’altra epigrafe all’interno rafforza l’idea di selezione all’ingresso:

vicolo Santa Marta a Vailate

Viator si inhabilis es
cave et pave
pervigil subrugit dominus

Viandante, se non sei abbastanza bravo
stai attento e temi
il padrone è sveglio e in agguato

Questo curioso padrone di casa era l’avvocato Leopoldo Barduzzi, amico di Gabriele d’Annunzio e suo legale (ne curò gli affari per tutta la vita). L’ho scoperto nel modo più semplice e antico: chiedendo alla gente. L’avvocato è rimasto nella memoria locale, e il ricordo è buono: fu podestà di Vailate, «era fascista ma ci teneva tanto al paese». Era bizzarro, ovviamente, e pure megalomane: «Vada al cimitero, a vedere la cappella che si è fatto: è enorme, pare il santuario di Caravaggio. Si dice che non l’abbia mai pagata». Se è vero, penso, anche come debitore insolvente Barduzzi si ispirava al suo amico famoso.

Ci sono molte lettere che documentano l’attività legale di Barduzzi per conto del poeta. L’8 agosto del 1917, nel pieno della battaglia della Bainsizza, d’Annunzio gli scrive che, mentre si trovava sul vallone di Chiapovan, ha trovato un nome ​​semplice, chiaro e opportuno per la nuova Società: La Rinascente. Che si provveda dunque a curare i suoi interessi per l’uso del marchio.
Barduzzi era presente la sera del 13 agosto del 1922 nella villa di Cargnacco, a Gardone Riviera (poi Il Vittoriale degli Italiani), quando d’Annunzio cadde misteriosamente dalla finestra. È un episodio su cui si sono fatte molte ipotesi, perché due giorni dopo d’Annunzio avrebbe dovuto avere un incontro riservato con Mussolini e Nitti: per quanto ci interessa qui, ci limitiamo a osservare che Barduzzi non rilasciò mai commenti sull’accaduto.
Dalle Memorie storiche di Vailate di Gera d’Adda di Monsignor Vittorio Tanzi Montebello (del 1932, ristampato in copia anastatica nel 2022) si apprende che Leopoldo Barduzzi fu nominato podestà nel 1926. Qui una sua foto presente nel libro:

vicolo Santa Marta a Vailate

Nel 1951 Barduzzi era certamente ancora vivo: di quell’anno sono tre suoi volumetti di poesie. Come poeta aveva esordito nel 1948, con Canto sinfoniale. Agli eroi e alle madri per il resurressi della patria, edito da Mondadori sotto gli auspici degli “Amici del Vittoriale” e primo numero dei Quaderni dannunziani nel decennale della morte del Vate. Trovando troppo respingente il titolo patriottico, ho preferito leggere le tre raccolte del 1951: La rédola, Nubilum in vesperis e Amoris flosculi, tutte edite da un fantomatico “Bellosguardo di Fessonia”.

vicolo Santa Marta a Vailate

Autopubblicazione? Una nuova burla? Ricordiamo solo due cose. La prima: la villa di Bellosguardo a Firenze ospitò due poeti nazionali, Ugo Foscolo e Guido Cavalcanti, quest’ultimo omaggiato da Barduzzi con una ballatetta gentil soave e piana (Alla mia donna lontana, in Amoris flosculi). La seconda: fessus in latino significa “stanco” (o “malato”) e Fessonia era una divinità minore (presente in un’unica fonte, il De civitate Dei di Agostino) probabilmente deputata ad alleviare le pene della stanchezza cronica.

La scrittura di Barduzzi è ostica e pomposa, cervellotica e totalmente disarmonica: non credo che lui stesso si sia mai ritenuto un valido poeta né che abbia avuto il coraggio di far leggere a d’Annunzio le sue composizioni (se pure ne scrisse quando l’amico era ancora in vita: forse prese coraggio soltanto dopo). Dalla lettura ricavo che era innamoratissimo della moglie, che ebbero una figlia, che nel 1951 la moglie era già morta e non aveva fatto in tempo a vedere la nipotina (allora piccola).
Il lessico vuole essere dannunziano (per esempio rédola per indicare un piccolo sentiero erboso tra i campi), ma lo è a sproposito e inserito in una versificazione zoppicante. Il ricorso alla mitologia e alla classicità è talmente gratuito e stonato da risultare esilarante.

Ci si può addirittura chiedere se l’intento di alcuni componimenti, per esempio La scuola (in Nubilum in vesperis), non sia proprio far ridere. È il primo giorno di scuola per il piccolo Barduzzi e la mamma (che tutto prevede / come l’egidarmata Minerva) gli ha fatto indossare degli stivaletti stringati con la punta in metallo (alti coturni / vasti e ancileati / al margine estremo / di spesso e lucido rame, / con bei legamenti crociati / di funicelle di sparto): degli anfibi, diremmo noi. A scuola ci sono un compagno buono e un compagno cattivo, il Franti della situazione, che per Barduzzi è simile / al gibbuto e contorto Tersite / che bifida ha la lingua di serpe. Il compagno cattivo svela a Barduzzi come nascono i bambini:

l’uomo non nasce,
come narrano il padre
saputo e la madre
pia, fonte di verità,
nell’orto o nel giardino,
portato dagli angeli
misteriosi
e la tenera madre lo trova,
ma come i lanuti animali

L'ingenuo Barduzzi ritiene che questa affermazione sia falsa, blasfema e gravemente offensiva per la propria madre, alla quale non si possono attribuire comportamenti simili a quelli dei lanuti animali. Quindi, si scaglia a testa bassa contro il Tersite in miniatura e lo costringe infine ad ammettere davanti a tutti che i bambini spuntano sotto i cavolfiori.
Un testo inquietante sotto il profilo stilistico, psicologico e anche storico (un fascista in erba fa prevalere tesi false usando la violenza).

Barduzzi adulto però non amava affatto la violenza, nemmeno quella sportiva e regolamentata. La boxe gli fa orrore, gli pare un ritorno all’età della pietra, come si vede nella poesia Il ring (Nubilum in vesperis), anch’essa piuttosto comica:

E in un fossile mondo di mostri
innanzi il diluvio,
tra i megateri e le felci giganti,
l’enorme pugno nel vello del petto,
il destro braccio alto levato
come un tronco maestro,
le deformi fauci janti,
i folli occhi di belva,
in sgomento ed orrore mi appare
nel Vittorioso, che ride alla folla
un preumano, Il Pitecantropo,
il piede sul collo all’ucciso,
sulla bocca dell’antro.

Barduzzi aveva un suo rapporto personale con la fede cattolica, da scettico che vorrebbe credere: il mio demone cauto, il chiaro intelletto, diceva: Non credere! (Al padre Lombardi). Il gesuita Riccardo Lombardi, a cui è dedicata la poesia da cui sono tratti questi versi, fu una figura molto discussa e per certi versi rivoluzionaria. Impegnato per un rinnovamento radicale della Chiesa, predicatore radiofonico che girava l’Italia (lo chiamavano “il microfono di Dio”), fu visto e ammirato da Barduzzi a Cremona, se interpreto bene (io venni alla chiara / e a me dolce città musicale / che postrema si bagna / all’orobico fiume irruente). L’aspetto religioso è presente in molte poesie e la moglie defunta si trasfigura in una specie di Madonna. Al santuario di Caravaggio, poi, Barduzzi era affezionatissimo, tanto da dedicargli un intero, lunghissimo componimento, nel quale la cosa più notevole, in verità, è il ribrezzo aristocratico con cui si mescola alla folla di malati, storpi e dementi in cerca del miracolo.

Infine, anche in questa storia, come in quella di dieci anni fa, si fa visita a un cimitero, ma Barduzzi, a differenza di de Rossignoli, non c’è bisogno di cercarlo: sta bene in vista. Una gigantesca cupola si staglia come uno sberleffo al passante, che da lontano si chiede perché quello che sembra il santuario di Caravaggio si trovi invece a Vailate. Infatti, la cappella funebre Barduzzi al cimitero di Vailate è talmente simile al santuario di Caravaggio che dalla strada potrebbe essere confusa con quello.
Ora capisco che l’affermazione dei vailatesi secondo cui l’avvocato si era fatto fare una tomba enorme, che pare il santuario, andava presa proprio alla lettera. Ecco le due cupole a confronto e la facciata della cappella Barduzzi-Asti:

vicolo Santa Marta a Vailate

Bambino prepotente, adulto infantile, marito tenero (in una poesia consola la moglie per il primo capello bianco, in un’altra cerca la pace dopo che lei gli ha messo il muso), nonno pazzo della nipotina, poeta dilettante e pretenzioso: ecco Barduzzi come si mostra nei suoi versi. La burla arguta, raffinata e insieme salace della scritta all’ingresso di casa secondo me non gli appartiene: è invece tipicamente dannunziana. Fu probabilmente d’Annunzio stesso a suggerirgliela.
Mi piacerebbe che qualcuno potesse confermare o smentire questa ipotesi, nata per strada da pietre che parlano e fanno domande senza fretta di avere risposte.